Cattive Acque: il cinema di impegno civile che angoscia, indigna e incolla mente e occhi allo schermo

Rob Bilott è da poco diventato socio dello studio legale presso cui lavora. Un giorno durante una riunione un allevatore del West Virginia, luogo dal quale anche lui proviene nonostante non sia orgogliosissimo delle sue origini, lo avvicina chiedendogli una mano per scoprire cosa sta succedendo nei suoi terreni, visto che le sue mucche stanno morendo tutte, presentando organi interni ed esterni deformati. Inizialmente riluttante, l’avvocato decide di indagare, arrivando a scoprire una realtà allucinante: il colosso della chimica DuPont sversa nelle acque della zona i rifiuti della loro catena produttiva, immettendo nei fiumi, ma poi anche nelle case delle persone, una sostanza letale e nociva: il PFOA, anche detto comunemente teflon. Lottando contro i mulini a vento, trascurando lavoro, famiglia e vita privata, l’avvocato ingaggia una battaglia legale ultraventennale per far venire a galla la verità e farla pagare ai colpevoli della morte di moltissime persone.

Abbandonando vezzi registici ed estetici in passato presenti in molte delle sue opere, Todd Haynes si mette intelligentemente e sommessamente al servizio di una storia straordinaria, che parla da sola e tiene lo spettatore letteralmente incollato allo schermo dall’inizio alla fine di un film che fortunatamente non si abbandona a facili sensazionalismi o a becere cadute di stile, evitando di sottolineare con veemenza quanto naturalmente viene trasmesso dai semplici fatti.

Una strategia vincente che rende Cattive Acque un solidissimo e apprezzabilissimo esempio di cinema civile (sulla scia di Erin Brokovich, The Insider e non solo), caratterizzato da aspetti che lo rendono apprezzabile anche dal punto di vista formale, quali innanzitutto una bellissima fotografia (l’elemento più importante di quest’opera, in grado di descrivere alla perfezione il grigiore della condizione personale del protagonista e l’orrore della storia collettiva di salute pubblica messa in pericolo a favore di arrivismo, guadagno e profitto), una regia semplice ma ricca di inquadrature straordinarie (soprattutto quando il regista dona un alone quasi orroristico alle vicende narrate) e, ultime ma non ultime, delle interpretazioni encomiabili che riescono anche a dare una dimensione emotiva di grande impatto ad un’opera altrimenti asciutta, quasi cronachistica e documentaristica.

A partire dallo straordinario Mark Ruffalo, perfettamente in grado di dosare le sue espressioni e soprattutto i suoi movimenti (il modo di camminare sempre più accasciato è straordinario nel trasmetterci il senso di oppressione e impotenza che l’avvocato eticamente irreprensibile sente ad ogni anno e ad ogni causa che passa), arrivando alle due sorprese Anne Hathaway e Tim Robbins, alle prese con due personaggi apparentemente marginali e ininfluenti, ma con il passare dei minuti sempre più al centro della vicenda (entrambi riusciranno grazie alla loro intensità, mostrata soprattutto in due monologhi imperdibili e toccanti, a dare ancora più spessore e importanza a questo racconto in grado di trascinarci totalmente nell’angoscia e nell’indignazione al tempo stesso).

La storia di Bilott parte nel 1998 e continua ancora oggi, visto che l’avvocato è attualmente impegnato nelle numerosissime cause contro il colosso costretto da lui a pagare milioni e milioni di risarcimenti alle vittime e alle famiglie delle stesse. Le scritte che alla fine arrivano a suggellare l’orrore vero e proprio già raccontato con le immagini del film, contribuiscono ulteriormente a lasciarci con un magone non indifferente, non solo per il coraggio di un uomo comunissimo che senza strillare troppo è riuscito da solo a scalfire la corazza di connivenza, omertà e corruzione contro cui è andato a scontrarsi, ma anche perché molto probabilmente nessuno di noi è esente dai pericolosissimi effetti che questa sostanza può avere sui nostri organismi (si stima insomma che il 99% degli esseri viventi, umani e animali, ne abbiano nel sangue una percentuale).

Cattive Acque, infine, ha il non trascurabile merito di riportare alla ribalta una questione molto probabilmente mai davvero approfondita, incuriosendo lo spettatore e spingendolo ad informarsi ulteriormente. Un merito estrinseco al valore del film, ma comunque un aspetto importante quando parliamo di cinema che si impegna in temi civili come questo.

4 commenti su “Cattive Acque: il cinema di impegno civile che angoscia, indigna e incolla mente e occhi allo schermo

  1. E’ l’ultimo film che sono andata a vedere in sala prima del lockdown, che nostalgia ç_ç
    Scherzi a parte, molto interessante e quanta angoscia: non conoscevo assolutamente la storia e ci sono rimasta malissimo per la questione “padelle”.

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