Color Out Of Space: il colore della paura per Richard Stanley è il fucsia

La famiglia Gardner si è trasferita in campagna per ricominciare una nuova vita all’insegna della natura e dell’allevamento di alpaca. Un bel giorno, però, sul loro terreno precipita una sorta di meteorite dal quale uno strano colore inizia a spandersi, inondando dapprima i frutti del terreno, per poi passare agli animali, fino ad arrivare agli umani…

Tratto dal racconto Il Colore Venuto Dallo Spazio di HP Lovecraft, questo horror sci-fi riesce magicamente ad insinuarsi nelle righe dell’immaginazione sconfinata dello scrittore di Providence, trasmettendo visivamente l’orrore dell’ignoto, quel terrore cosmico che ha dell’imponderabile e che quindi, difficilmente si potrebbe trasporre in immagini. Dando forma al colore indefinito e indescrivibile che lo scrittore poneva al centro del suo scritto, portandolo sulle nuance del fucsia e del rosa, Richard Stanley, con l’aura di “regista maledetto” che lo accompagnava ormai da quasi trent’anni, compie il “miracolo” e ci regala un’opera ipnotizzante come lo stesso colore che si impossessa delle menti e dei corpi dei protagonisti.

Corpi che cominciano a subire mutazioni indescrivibili descritte in alcuni casi con minuziosa attenzione, tanto da sfociare in un apprezzabilissimo finale in cui il body horror la fa da padrone, trasmettendoci, appunto, un orrore “fisico” vero e proprio che, misto a quello psicologico che si respira soprattutto nella prima parte, crea un mix davvero sorprendente.

Il merito va soprattutto all’utilizzo della fotografia in grado di rendere il colore fucsia terrificante, alle note della colonna sonora di Colin Stetson (già compositore per Hereditary) e alla regia che si sofferma abilmente sui volti dei protagonisti, ma anche sugli ambienti in cui si muovono, dando il giusto peso ad entrambi e utilizzandoli alla perfezione per rinchiuderci a viva forza nella follia che si impadronisce della natura e dell’essere umano al tempo stesso.

E per questo motivo, l’”overacting” di Nicolas Cage, dapprima misurato nella sua interpretazione e poi sempre più lasciato a briglia sciolta, risulta oltremodo convincente e decisamente azzeccato per raccontare il completo percorso delirante che il padre di famiglia da lui interpretato comincia a percorrere dopo l’arrivo del fatidico colore venuto dallo spazio. Un’interpretazione che si sposa alla perfezione con l’assunto di fondo della pellicola, in cui si parla di uno scollamento totale dalla realtà, causato da un elemento “alieno” che semina il terrore ma forse, in qualche modo, costringe ad affrontarla di petto questa realtà (la situazione familiare dei Gardner, infatti, nasconde dei piccoli tarli, mostrati volutamente poco per volta e descritti in maniera molto poco enfatica, come spesso invece capita quando registi e sceneggiatori si trovano a raccontare di contesti familiari in cui c’è del disagio).

Non sarà forse, quindi, che questo fantomatico colore, nonostante i sacrifici e le sofferenze richieste per arrivarci, ha portato semplicemente a galla la vera natura di ciascun componente di questa famiglia, incuneandosi nelle pieghe più recondite e nascoste della mente di ognuno di loro?

Certo l’impressionante escalation di terrificanti mutamenti, fisici e non, che vengono mostrati soprattutto nella parte finale del film, lascia poco spazio per lanciarsi in simili elucubrazioni, fatto sta che Color Out Of Space, con la sua carica dirompente e trascinante, cattura tutta la nostrra attenzione e ci trasmette anche il senso di “follia” che sicuramente si sarà insinuato nella mente di Stanley, dandogli il coraggio e l’audacia di affrontare una simile materia, riuscendo a portare a casa un ottimo risultato e ricordandoci della massima di Erasmo da Rotterdam: “Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia”.

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