Giacomo Leopardi

Anch’esso poeta e scrittore odiato dalla maggior parte dei ragazzi perché costretti a studiarlo sui banchi di scuola e quindi non apprezzato per quella sua arte così ricca di spunti filosofici, di tristezza, di sentimento e anche, perché no di ironia. Io personalmente, ho iniziato ad appassionarmi a questo grande della letteratura italiana, solo quando ho dovuto studiarlo per l’università, accomunandomi a tutti gli altri, quando andavo a scuola, nell’odiarlo e nel criticarlo per la sua eccessiva prolissità non tanto di parole, ma di contenuti la maggior parte delle volte tristi e angosciosi. Crescendo, per fortuna, ho capito che la chiave di lettura per le sue meravigliose opere non era affatto quella, e sono riuscita più di una volta ad immedesimarmi e quasi a provare le stesse sensazioni che un giovane, anche se in un’epoca alquanto diversa, può provare in varie situazioni, quale l’essere relegato in una realtà troppo stretta, il sentirsi solo perché circondato da gente così diversa che non capisce il tuo modo di essere, il rifiuto d’amore e tantissime altre. Per cui secondo me, bisognerebbe abbandonare il pregiudizio che Leopardi sia un poeta pesante e noioso, e abbandonarsi nel fiume delle sue parole, dolci e soavi, ma così amare e vere al tempo stesso.

 

Cenni biografici e poetica da www.homolaicus.com

Leopardi nasce a Recanati (Marche, ma allora Stato della Chiesa) nel 1798, primogenito di 9 fratelli, 5 dei quali sopravvissuti. La sua famiglia è di origine nobile, anche se titolata di recente: essa traeva sostentamento da un precario reddito agrario e dal gioco di destrezza rappresentato dalla richiesta e dall’assegnazione di dote. Il patrimonio comunque era stato dissestato dalle manie collezionistiche e dalla cattiva amministrazione del padre Monaldo (un conte di idee legittimiste e sanfediste). La madre, Adelaide Antici, sembrava vivere con l’unico scopo di restaurare la passata ricchezza. Nella primavera del 1798, quando Napoleone passò per la Marca anconetana e direttamente da Recanati, Monaldo, che era il nobile più in vista del luogo, si rifiutò di vederlo.

La puerizia di Giacomo fu "mozartiana": estro, grazia, destrezza, capacità di memoria e di assimilazione prodigiose. Tuttavia, nel 1810, i genitori improvvisamente decisero, per ragioni rimaste ignote, ch’egli non avrebbe goduto i privilegi del maggiorascato e che invece si doveva favorire la sua carriera ecclesiastica: e così fu tonsurato.

Già a 10 anni, poiché non lo soddisfacevano i due precettori cui l’aveva affidato la famiglia, inizia a studiare da solo nella ricchissima (anche se antiquata) biblioteca paterna (12.000 volumi), che era stata messa insieme comperando all’asta i fondi sequestrati dai francesi a conventi, congregazioni, istituti religiosi. Si applica soprattutto alla filologia greca e latina, impara l’ebraico e le lingue moderne. Con 7 anni (1812-17) di studio "matto e disperatissimo" si rovina la salute in modo irreparabile e diventa un ragazzo prodigio.

In questo periodo compone circa 240 opere: traduzioni, saggi eruditi e filologici, tragedie, inni, commenti, discorsi, ecc. Tutte di scarso valore contenutistico, ma utili per comprendere il retroterra culturale del giovane Leopardi. Egli infatti non aveva studiato solo gli autori antichi, ma anche i testi degli illuministi e materialisti francesi e inglesi del Settecento: Locke, Helvetius, Voltaire, Montesquieu, d’Holbach, Rousseau. Le idee di questi Illuministi vengono combinate con una posizione teorico-politica piuttosto conservatrice, frutto dell’ambiente arretrato in cui il giovane Leopardi viveva. Ad es. egli si compiace della sconfitta di Murat ad opera degli austriaci nel 1815 (Murat era stato messo da Napoleone sul trono di Napoli), esalta l’assolutismo illuminato (cioè attende dal "principe" ciò che ormai i patrioti aspettavano dal popolo), considera l’unificazione nazionale un’utopia (vedi ad es. Orazione agli italiani del 1815), non mette in discussione i valori delle classi privilegiate… Non dimentichiamo ch’egli trascorse tutta la sua vita durante il periodo più oscuro della ventata restauratrice seguita al Congresso di Vienna del 1815. Nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica (1817) assume una posizione antiromantica e antispiritualista.

Fra i 17 e i 18 anni matura un improvviso mutamento di gusto letterario: passa dalla astratta erudizione e dalla retorica alla poesia e alla letteratura. Questo mutamento probabilmente dipese dal fatto che la pessima condizione fisica l’aveva portato a una forte crisi esistenziale, ovvero a una riflessione più personale sulla propria vita. Inizia a leggere le opere di Alfieri, Monti, Parini, Foscolo, Goethe, Byron… per sentirsi più vicino alla sensibilità e alle problematiche del Romanticismo. Del quale però se condividerà certi atteggiamenti esistenziali, come l’angoscia, l’oblio, la malinconia, nonché la polemica contro la mitologia greca e l’imitazione pedissequa della tradizione classica, non accetterà mai l’esaltazione eroica, la passionalità, il sentimentalismo, il nesso letteratura/politica, ecc. Nel 1817 inizia a raccogliere note letterarie, filosofiche, personali, nello Zibaldone che, continuato sino al 1832, verrà pubblicato postumo nel 1898.

Si sente particolarmente valorizzato quando un grande letterato come Pietro Giordani apprezza la sua traduzione di una parte dell’Eneide. Anzi, l’amicizia col Giordani, di idee democratico-illuministiche, lo porterà a modificare sensibilmente le sue opinioni politiche conservatrici. Tanto che le canzoni civili All’Italia e A Dante (1818) gli attirano le simpatie degli ambienti carbonari. Ad es. nella canzone Monumento a Dante, egli rimprovera alla Francia le confische dei nostri beni artistici e la perdita delle divisioni italiane durante la campagna di Russia.

Avrebbe voluto nel ’19 recarsi a Roma per contattare ambienti culturali più stimolanti di quello di Recanati, ma non avendo ottenuto nella capitale alcun lavoro e non essendo la sua famiglia disposta a stipendiarlo, è costretto a rinunciare. Il desiderio di uscire da Recanati, come da una prigione, è un motivo centrale della sua vita: esprime in una forma concreta quella sua ansia romantica di una realtà diversa da quella in cui con la "ragione illuministica" s’era chiuso. Egli infatti dell’Illuminismo (almeno fino all’incontro col Giordani) non aveva apprezzato le idee politiche democratiche ma solo quelle idee filosofiche orientate verso il materialismo meccanicistico e sensistico.

Eppure la produzione migliore del Leopardi avviene proprio nel periodo di Recanati (in cui passerà 25 dei suoi 39 anni di vita): L’infinito, La sera del dì di festa, Alla Luna, Ultimo canto di Saffo, Ad Angelo Mai… Il motivo sta nel fatto che il Leopardi riesce a coniugare una perfezione stilistica pressoché assoluta con una profonda liricità e con una acuta percezione della vanità delle cose. Frustrato sul piano dei sentimenti e delle relazioni amorose, privo di attività lavorativa, poco attratto dalla vita sociale del suo paese, Leopardi matura idee sempre più pessimiste, decisamente avverse a ogni forma di illusione o di consolazione. Lo testimonia anche il contenuto delle sue Operette morali, composte nel 1824 (pubblicate a Milano nel ’27, mentre la censura borbonica sequestrerà una seconda edizione stampata a Napoli nel ’36). Il tema dominante delle Operette (scritte in forma dialogica) è l’analisi dei profondi limiti della ragione umana nella lotta contro la natura. Lo stato d’animo con cui vennero concepite -a detta dello stesso Leopardi- era quello ironico/satirico/ribellistico. Esse s’imporranno negli anni Venti del nostro secolo come modello supremo di ogni prosa moderna.

 

Quando finalmente ottiene di potersi recare a Roma, la sua delusione è totale: Roma gli appare come una grande Recanati, vuota e superficiale. Tuttavia gli si aprono alcune prospettive. Riceve da un editore di Milano l’incarico di curare un’edizione delle opere di Cicerone e un commento al Petrarca. L’assegno mensile gli permette di fare alcuni viaggi a Milano, Bologna, Firenze e Pisa ove incontra alcuni degli intellettuali più in vista dell’epoca: dal Monti al Manzoni. Finché, incapace di un proficuo lavoro a causa delle sue precarie condizioni di salute, abbandona l’impiego e ritorna a Recanati, dove in 16 mesi di cupa disperazione (1828-30) compone liriche famosissime come Passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Esce dalla disperazione accettando la generosa offerta che alcuni intellettuali di Firenze gli fanno per poterlo avere nella loro città.

Nel 1831, in occasione dei moti carbonari, il paese di Recanati lo elegge, all’unanimità, deputato all’Assemblea Nazionale che doveva convocarsi a Bologna, ma la città viene rioccupata dagli austriaci, per cui il Leopardi, che era a Firenze, deve rifiutare l’incarico.

Sempre alla ricerca di un clima adatto al suo fisico malato (asma, idropisia polmonare, neurastenia…), muore a Napoli nel 1837. Le ultime opere sono ironiche e satiriche, contro l’ottimismo del secolo e la sua fede positivista nel progresso, contro gli austriaci che a Napoli avevano soffocato i moti liberali degli anni ’20, ma anche contro i liberali che s’illudevano di poter realizzare facilmente l’unificazione nazionale, e contro i pontifici che erano del tutto avversi a tale unificazione. La critica del Leopardi continua ad essere anche contro l’atteggiamento ostile ch’egli ravvisava nella natura e nel destino nei confronti degli uomini (vedi La Ginestra, nella quale esalta i valori della compassione e della solidarietà umana).

A. Schopenhauer lo consacrò come pensatore nei Supplementi al quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione e nel 1858 gli dedicò un percorso di letture. F. Nietzsche considerava Leopardi come il massimo prosatore del secolo, anche se sul piano filosofico scorgeva in lui un rappresentante del "cattivo nichilismo". Da notare che le Università di Bonn e di Berlino offrirono a Leopardi la cattedra di filologia, che egli rifiutò adducendo motivi di salute.

Nel Palazzo Leopardi di Recanati è possibile visitare la Biblioteca, insieme coi manoscritti giovanili del poeta (si conservano gli originali dell’Inno a Nettuno e della Canzone ad Angelo Mai). In un edificio moderno attiguo vi è la sede del Centro Nazionale di Studi Leopardiani che, costituito nel 1937, raccoglie 6.000 volumi.

 

IDEOLOGIA E POETICA

Per tutta la sua vita egli rimase fedele alle teorie ateo-materialistiche dei filosofi illuministi, con particolare preferenza verso le tendenze meccanicistiche e fatalistiche.

In un primo momento contrappone la natura alla società (sul modello di Rousseau), poiché riteneva che la scienza, portando gli uomini alla dura verità delle cose, distruggesse le illusioni che, anche se destinate a non realizzarsi, sono pur sempre fonte di vita e di movimento. In questo senso il mondo classico, con la sua ingenuità, gli appariva superiore a quello moderno, troppo cinico e spietato per essere vissuto con innocenza.

In seguito però Leopardi critica la stessa natura, che gli appare "matrigna", perché con la sua legge della perenne trasformazione delle cose, non può dare un senso alla vita degli uomini. La natura cioè ha leggi cieche e meccaniche che sovrastano completamente le capacità umane di conoscerle e dominarle.

La natura è "matrigna" anche per un’altra ragione: essa ha instillato nel cuore dell’uomo un desiderio di felicità che è destinato a rimanere inappagato (di qui il sentimento della "noia" quale percezione della nullità delle cose). Le illusioni quindi non servono a niente.

Se dunque anche il Leopardi, come il Foscolo, considera illusori valori come libertà, amore, patria, gloria…, rifiuta categoricamente di costruirci sopra, a differenza del Foscolo, una giustificazione della vita. La filosofia del Leopardi è coscienza dolorosa della tragica condizione umana.

Tuttavia Leopardi esclude come soluzione finale quella del suicidio o dell’oblìo: l’uomo -a suo giudizio- deve combattere questo assurdo destino se vuole sentirsi "umano". Il dolore va vinto con la lotta interiore, con la dignità di sé. Alla concezione pessimista della filosofia bisogna opporre quella propositiva della poesia. Nella filosofia del Leopardi non vi è solo una logica implacabile dell’illusorietà della vita, ma anche un rifiuto istintivo di questa conclusione drammatica della ragione: cioè vi è un’ansia romantica di infinito-assoluto-eterno.

Da notare che Leopardi non ha particolare interesse per le contraddizioni sociali o politiche: l’unica che lo preoccupa e lo angoscia è quella uomo/natura. Lo scarso impegno socio-politico è dipeso in gran parte dalle forti sofferenze personali, le quali non possono essere staccate dalla sua produzione letteraria. La grandezza del Leopardi tuttavia sta nell’aver cercato di dare alle proprie sofferenze un significato di ordine generale, universalmente valido.

 

Leopardi fra ribellismo e rassegnazione

Paradossalmente c’è più ribellismo nell’ultimo Leopardi, che mai aveva partecipato attivamente alle vicende della politica risorgimentale, di quanto ve ne sia nell’ultimo Foscolo, che pur sin da giovanissimo si era lasciato coinvolgere nell’avventura napoleonica in Italia e nella resistenza anti-austriaca.

Questa differenza di atteggiamento forse può essere spiegata nel modo seguente: 1) una grande delusione politica può anche portare un individuo ad assumere posizioni regressive (è il caso del Foscolo); 2) uno scarso coinvolgimento con la realtà politica traumatizza di meno un individuo dalle delusioni ch’essa può ingenerare (è il caso del Leopardi, oppresso più che altro dalle sue sofferenze psicofisiche e dalle scarse relazioni sociali).

Questo può forse significare che nella posizione regressiva dell’ultimo Foscolo c’è sempre più realismo che in quella ribellistica dell’ultimo Leopardi (ad es. il Foscolo è stato grande anche come critico letterario, mentre il Leopardi dei Paralipomeni è assai poco significativo).

Il paradosso insomma sta in questo, che è molto più illuso il Leopardi, che pur ha sempre negato all’illusione un qualunque valore pedagogico, del Foscolo, che invece vedeva nell’illusione una giustificazione di vita. Sostenere -come fa il Leopardi- che la vita non ha senso, che la lotta politica è fatica sprecata, che la natura è "matrigna" (avendo essa destinato l’uomo all’infelicità eterna e autoconsapevole), e poi pretendere che l’uomo (da solo o associato) continui a combattere contro l’avverso destino, rivendicando una propria irriducibile dignità -significa, in sostanza, non avere il senso della realtà, cioè chiedere l’impossibile.

In definitiva, ciò che il Leopardi non ha assolutamente capito (l’unica eccezione è costituita, almeno in parte, dall’Infinito), è che la contraddizione è un momento essenziale di un processo dialettico che porta all’assoluto. Il limite cioè, o la debolezza o il contrasto, non esclude la perfezione, il cammino verso la perfezione, ma anzi ne è il presupposto.

Per il Leopardi la trasformazione perenne della materia era fonte d’angoscia proprio perché egli non riusciva a vederla dal punto di vista della totalità (cioè dell’obiettivo verso cui è indirizzata). In virtù di tale trasformazione, che è fonte di liberazione, in quanto esiste un orientamento verso uno scopo, gli uomini possono ridimensionare il peso di quelle contraddizioni che la ostacolano.

Leopardi esprimeva il difetto di molti intellettuali privi di realismo, preoccupati solo di anticipare in loro stessi, astrattamente, il sentimento appagato del benessere, la percezione della assoluta felicità, la pienezza dell’esistenza. Tracce di realismo, nella sua filosofia, sono presenti laddove viene suggerito di abbandonare risolutamente le illusioni sulla propria esistenza. Senonché egli ripropone, come alternativa, la logica "buddista" della rassegnazione, quella per cui non solo le illusioni vanno rifiutate ma anche i desideri, le istanze di liberazione. Cosa che, a ben guardare, è quanto di più disumano possa esistere: la logica infatti vuole che se gli uomini fossero già "liberati", le istanze sparirebbero da sole, senza alcun forzato processo intellettualistico di autonegazione.

 

OPERE

Canzoni (1824), edizione "Annesio", Napoli. È il primo grande libro di poesie di Giacomo dove si presenta in veste di poeta etico e civile. L’opera aduna 10 componimenti scritti tra il 1818/23 e sono in ordine cronologico:

  • All’Italia
  • Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze
  • Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica [con dedicatoria a Leonardo Trissino]
  • Nelle nozze della sorella Paolina
  • A un vincitore nel pallone
  • Bruto minore
  • Alla primavera o delle favole antiche
  • Ultimo canto di Saffo
  • Inno ai patriarchi o dè principii del genere umano
  • Alla sua donna

Versi (1826), edizione "Stamperia Le Muse", a cura di Pietro Brighenti, Bologna. Pubblicato a prorpie spese è la seconda e rilevante silloge poetica di Giacomo. Comprende tutti i testi approvati non inclusi nelle CANZONI del ’24:

  • Idilli
    • L’infinito. Idillio I
    • La sera del giorno festivo. Idillio II
    • La ricordanza. Idillio III
    • Il sogno. Idillio IV
    • Lo spavento notturno. Idillio V
    • La vita solitaria. Idillio VI
  • Elegie
    • Elegia I
    • Elegia II
  • Sonetti in persona di Ser Pecora Fiorentino Beccaio
    • Sonetto I
    • Sonetto II
    • Sonetto III
    • Sonetto IV
    • Sonetto V
  • Epistola
    • Epistola al Conte Carlo Pepoli
  • Guerra dei topi e delle rane
    • Canto I
    • Canto II
    • Canto III

Volgarizzazione della satira di Simonide sopra le donne

Canti (1831), edizione "Piatti", Firenze. Struttura tripartita con Canzoni, idilli e canti pisano-recanatesi. Si compone di 23 componimenti:

  • All’Italia
  • Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze
  • Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica [con dedicatoria a Leonardo Trissino]
  • Nelle nozze della sorella Paolina
  • A un vincitore nel pallone
  • Bruto minore
  • Alla primavera o delle favole antiche
  • Inno ai patriarchi o dè principii del genere umano
  • Ultimo canto di Saffo
  • Il primo amore [Elegia I B24]
  • L’infinito. Idillio I
  • La sera del giorno festivo. Idillio II
  • Alla luna [La ricordanza in B26]
  • Il sogno
  • La vita solitaria
  • Alla sua donna [la decima canzone in B24]
  • Al Conte Carlo Pepoli
  • Il risorgimento
  • A Silvia
  • Le ricordanze
  • Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
  • La quiete dopo la tempesta
  • Il sabato del villaggio

 

Mi è capitato di leggere, un po’ per studio, un po’ per diletto, quasi tutte le opere di Leopardi e di affezionarmi particolarmente ad alcune di esse, come L’ultimo canto di Saffo, L’infinito, Canto di un pastore errante dell’Asia e Alla luna.
Ovviamente fare un intervento su Giacomo Leopardi è cosa veramente ardua, dato che le cose da dire sarebbero veramente “infinite”, ma per motivi di spazio e anche per non tediare troppo i miei carissimi lettori, preferisco rimanere sul generale, decantando le lodi di un grande poeta, eterno ed indimenticabile.

 

“e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante favelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? Che vuol dir questa
solitudine immensa? Ed io che sono?”
(Canto di un pastore errante dell’Asia, vv. 84-89)

 

 

9 commenti su “Giacomo Leopardi

  1. ciao scusa per il disturbo ho realizzato un post che si chiama dite qualcosa di voi se ti va puoi passare nel mio blog e farlo ,lo trovo interessante e diverso dal solito stupido quiz impostato dalle 100 domande alle quali risp.nn ci sn limiti di lunghezza ed ognuno puo scrivere parole aggettivi descrizioni ecc l ho fatto perke amo l interattività fra blogger di splinder

  2. cosa sarebbe la stroia delle arti e delle lettere senza i pessimisti? Oggi non esistono più, li “curano” con gli antidepressivi. Ciao Nam

  3. non voglio essere un pessimista ma, da buon marchigiano, vado spesso a Recanati. E nel pensier mi fingo ove per poco il cor non si spaura. Qanto al tuo blog, complimenti: sa di cinema e di celluloide!ciao, s.

  4. Pessimista?? ahahahh…

    Questo ha capito tutto dalla vita. Il mio autore preferito di sempre.. Le sue poesie, le sue opere sono veri capolavori, dal primo all’ultimo…

    La sua teoria del piacere è una delle cose più vere mai esternate

    “il piacere non né è assoluto né infinito; anzi, il piacere in sé non esiste: esiste solo nel desiderio, essendo un “subbietto speculativo”, vale a dire un puro concetto. Il desiderio è immaginazione, speranza, sogno, proiettato sempre al futuro e sempre destinato ad essere deluso. Invece del piacere esistono i piaceri, intesi in senso negativo come cessazione dell’affanno, brevi momenti di assenza del dolore; concreti ed effimeri, rendono sopportabile il dolore, restituendo momentaneamente la vitalità, l’impulso vitale.

    La teoria del piacere, il cui carattere è negativo, è strettamente legata alla teoria dell’amor proprio. L’amor proprio, infatti, implica la ricerca della felicità, ma questa ricerca è senza esito, non può avere fine, quindi non può mai appagarsi. L’uomo cerca il piacere sempre, ma non può accontentarsi del piacere che trova, che è finito; egli è pertanto destinato a cercare il piacere in qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto: ciò significa che non lo trova mai. La tragicità della condizione umana è in questa ricerca dell’infinito, che conduce sempre allo scacco.

    Il piacere è sempre sperato, mai posseduto, sempre futuro, mai presente: esso sfugge sempre. Non esistendo e non potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue. In base a questa teoria il concetto di piacere è negativo, quello di dolore è positivo, per cui si può dire che il piacere è la mancanza del dolore, ma non si può dire che il dolore è la mancanza del piacere, ovvero di qualcosa che non esiste. ”

    Un filosofo, un poeta unico.

  5. Sinceramente è passato tantissimo tempo da questo post. Comunque credo di averlo preso semplicemente da Internet, forse da Wikiquote o una cosa così.

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