Le valigie di Tulse Luper – Storia di Moab




REGIA: Peter Greenaway

CAST: JJ Field, Valentina Cervi, Drew Mulligan, Scott Williams, Nigel Terry, Caroline Dhavernas, Tom Bower, Deborah Harry, Jordi Mollà, Yorick Van Wagenighen, Kevin Tighe

ANNO: 2002

 

Tulse Henry Purcell Luper, non fa altro che passare da una prigione all’altra, collezionando una serie di valigie dove conserva i ricordi più emblematici delle sue esperienze.

 

Che Peter Greenaway abbia delle precise e inusuali idee riguardanti il cinema è cosa ormai arcinota. A sua detta il cinema, puramente inteso, è cosa ormai morta e bisogna alimentarlo con altre arti e con delle precise direttive estetiche e poetiche. E’ quello che da un po’ di anni a questa parte sta cercando di fare con i suoi film, che a dirla tutta non possono essere definiti nemmeno film, almeno non nel senso comunemente inteso. Il suo è un cinema sperimentale, quasi indecifrabile e incomprensibile, molto probabilmente nemmeno condivisibile, soprattutto nel suo tentativo di demolire qualsiasi altra forma della settima arte. Ma al di là della condivisibilità delle sue idee, bisogna ammettere che ciascuna delle sue pellicole, nel bene o nel male, risulta essere una sorta di esperienza extra-sensoriale, che ci porta a ragionare e riflettere approfonditamente sul mezzo cinema, sulla strada che ha percorso, che sta percorrendo e che potrebbe o non potrebbe percorrere. E’ quello che avviene anche con “Le valigie di Tulse Luper – Storia di Moab”, film estremamente emblematico per quanto andiamo dicendo, oltre che sicuramente irritante nella sua esagerazione di intenti e di modi. In ogni istante di questo film, infatti, Greenaway ci sbatte in faccia la sua visione del cinema, per lui arte ormai inesistente, soprattutto dal punto di vista narrativo, se non come viatico per altre forme di comunicazione, a partire ovviamente dalla pittura (possiamo definirlo in effetti un pittore dello schermo, vista l’influenza di Caravaggio e Veermer, nella composizione di ogni singola immagine restituitaci sotto forma di fotogrammi che potrebero sembrare dei quadri dipinti), senza dimenticare Internet, tant’è che a detta dello stesso Greenaway questo film altro non è se non l’introduzione ad un suo sito su vari argomenti. Argomenti che ci vengono presentanti come contenuto di 92 valigie, quelle riempite dal protagonista durante le sue prigionie e le sue avventure. Un numero il 92, quello che indica anche l’uranio protagonista nascosto ma neanche tanto della pellicola, che costituisce quasi il numero di pellicole che si potrebbero ricavare da questo film. Ogni valigia, infatti, apre la strada ad un’infinità di narrazioni, non comunemente intese ovviamente, che ci portano a divagare quasi confusionariamente da un tema all’altro. Tant’è che ciascuna di queste valigie è stata presa poi a pretesto per una serie di iniziative culturali che vanno dal succitato sito, a rappresentazioni teatrali e musicali a mostre d’arte e via di questo passo. Un progetto ambiziosissimo, dunque, quello di Greenaway che partendo da un film vuole creare una rete quasi infinita di divulgazione della propria arte, del proprio lavoro. 

Il fatto che il protagonista sin dall’infanzia non faccia altro che rimanere imprigionato in prigioni fisiche e metaforiche, non fa altro che confermare il fatto che Greenaway ritenga il cinema narrativo, lo schermo stesso, una vera e propria prigione artistica e intellettuale, ecco che allora cerca di liberarsene e liberarcene, credendo di farci un grosso favore, tramite una serie di espedienti ripetuti fino allo sfinimento: decostruzione dell’immagine che si ripete più e più volte sullo schermo in riquadri che si fanno via via più piccoli e più ravvicinati; sovraesposizione delle battute della sceneggiatura ripetute fino allo sfinimento dagli attori, sia sul set che in una sorta di dimensione surreale fuori dal set come se le stessero provando tra loro, ma anche scritte letteralmente sullo schermo e fatte scorrere in concomitanza con la loro effettiva realizzazione; intervento di personaggi non ben identificati che commentano le avventure del protagonista; suddivisione della narrazione in un numero quasi spropositato di capitoli e numerazione di ciascun personaggio (il protagonista è il personaggio n. 1 ovviamente); espedienti visivi che ricalcano ossessivamente le azioni degli attori come ad esempio la numerazione e il posizionamento delle percosse che un gendarme nazista riversa continuamente sul protagonista, con tanto di accompagnamento musicale per ciascun calcio, pugno o schiaffo; didascalismo estremo che però non fa altro che rendere ancora più incompresibile, paradossalmente, ciò che viene mostrato e raccontato.

“Le valigie di Tulse Luper – Storia di Moab” è a conti fatti un film cerebrale, che non offre nessuna emozione o coinvolgimento, totalmente pregno di autocompiacimento, visto che il protagonista, intellettuale, regista, naturista, artista, ecc…, altri non è se non un vero e proprio alter-ego del regista tant’è che più volte si fa riferimento alle sue pellicole. Al tempo stesso, però, è anche un film che offre la possibilità di metterci a confronto con la nostra idea di cinema, pervenendo al risultato di rigettare o accettare totalmente quella di Greenaway (non esistono vie di mezzo) e impegnandoci in una visione attenta e appagata dalla bellezza, non solo delle immagini, ma della prospettiva e delle angolazioni in cui queste sono riprese.

Un’esperienza, detestabile o meno, a seconda delle conclusioni a cui si perviene circa la natura e la valenza della settima arte, che in un certo qual senso ha la forza di far parlare, e molto, di sé, nel bene o nel male e di interrogarci, lasciandoci nell’impossibilità di un giudizio netto e definitivo, sulla valenza artistica, cinematografica e intellettuale della pellicola e del suo stesso regista.

 


14 commenti su “Le valigie di Tulse Luper – Storia di Moab

  1. Un’esperienza, appunto. Forse va vissutà così. Qualcosa di più vicino alla videoarte che al cinema. A volerlo leggere come un film si perde il senso dell’avventura che un opera come questa offre. un pò quello che si rischia guardando INLAND EMPIRE come se fosse un vero film…

  2. Recensione interessante. Io sono comunque un fan di Greenaway e dunque il mio giudizio è sicuramente positivo, ma ritengo che questa pellicola in particolare non si possa giudicare da sola, visto che fa appunto parte di un progetto molto più vasto che peraltro non si limita agli altri film della serie "Tulse Luper Suitcases" e alle operazioni collaterali, ma si ricollega praticamente ai primi lavori di Greenaway degli anni ’70 e ’80.
    Il personaggio di Tulse Luper è infatti un alter ego di Greenaway stesso e compariva (insieme a molti altri character che si vedono in questo film) o veniva citato già in numerosi film di finzione, documentari, racconti e opere precedenti: per esempio aveva un ruolo importante nel complicatissimo "The falls" del 1980, il suo primo lungometraggio, la cui visione è fondamentale, secondo me, per capire meglio l’universo narrativo del regista.

    Ciao
    Christian

  3. Questa è roba per chi ha tempo e voglia di stare al gioco dell’autore.
    Almeno Lynch ha la "decenza" di rendere ogni sua opera, per quanto assurda, completa in sè.
    L’idea di dovermi sparare l’intera filmografia di Greenway per comprendere almeno "qualcosa" di questo film mi attira quanto vedere asciugare una parete appena imbiancata. 

  4. Strade perdute, infatti sono d’accordo sul fatto che sia un’esperienza.

    Christian, pensa che tutti i film che ho visto di Greenwaay (I misteri del giardino di Compton house, Lo zoo di venere, Il cuoco il ladro la moglie e l’amante, Il ventre dell’architetto) mi sono piaciuti veramente moltissimo. Questo non dico che non mi sia piaciuto, dico che è impossibile (almeno per me) dire se è piaciuto o meno, del resto penso che si capisca bene dalla recensione.

    Martin, ovviamente credo che nessuno, nemmeno un fan di Greenaway, possa biasimarti.

  5. So già che Martin non ama Greenaway. Una volta ho provato a fargli vedere proprio "The falls", con esiti infausti… 🙂   D’altronde è un regista che divide il pubblico in due, dunque è perfettamente normale che non piaccia a tutti.

    Comunque anche nel suo caso la maggior parte delle pellicole (per esempio quelle citate da Ale55andra nel commento precedente, cui aggiungerei gli splendidi "L’ultima tempesta", "I racconti del cuscino" e "Giochi nell’acqua") sono "godibili" a sé stante, come è giusto che sia. A fare eccezione è appunto il ciclo di Tulse Luper, costituito da opere che fanno parte di un unico continuum a partire dai corti "Vertical Features Remake", "A walk through H", e continuando appunto per "The falls" e la trilogia delle valigie, più varie opere minori. Non "l’intera filmografia", come scrive Martin, dunque, ma solo una piccola parte: sta all’appassionato darsi da fare per recuperare tutti i frammenti di quella che è la storia di un unico personaggio: nessuno naturalmente è obbligato a farlo, proprio come nessuno è obbligato a vedersi tutti i "Guerre stellari": ma non si può fare a meno di dire a chi ha visto solo "La minaccia fantasma" di recuperare i film precedenti!

    Ciao
    Christian

  6. Post importante e impegnativo. Almeno quanto la visione di questo film, non certo agevole.

    Sono d’accordo con chi ha commentato prima citando "The falls" come antecedente di grossa rilevanza per la comprensione di tutta l’operazione Tulse Luper. Per me non il miglior esito cinematografico di Peter Greenaway, ma senza dubbio una strada/percorso interattivo e inter/iper-testuale che vale la pena di esplorare. Sperando di riuscire a vedere presto in Italia, in qualche modo, anche gli altri due capitoli successivi della trilogia. Per ora praticamente invisibili.

    Saluti 🙂

  7. La mia impressione, perchè non può che essere tale, è che anche ad avere tutti i pezzi in mano si faccia comunque a capire il senso dell’intero progetto.
    Quindi si tratta proprio, e in questo sono d’accordo con Christian, di qualcosa che solletica gli appetiti solo degli "hard core fans" di Greenaway, disposti a tour de force cinematografici per capire almeno qualcosa di questo complicato rompicapo.
     

  8. Christian, in effetti mi mancano quelle pellicole che mi avrebbero fatto comprendere appieno il senso e le intenzioni di questa pellicola. Sicuramente le recupererò, però anche così comunque molte delle cose che Greenaway pensa e vuole trasmettere arrivano.

    Stefano, The falls per ora mi manca, ma è comunque in lista recuperi. Sono contenta che ti sia piaciuto il post.

    Martin, io non sono una fan sfegatata di Greenaway però il suo cinema mi incuriosisce molto. I film che ho citato nel precedente commento tra l’altro mi sono piaciuti molto, chi più chi meno.

  9. <i>anche così comunque molte delle cose che Greenaway pensa e vuole trasmettere arrivano</i>

    Certo, sono d’accordo. Non lo volevo mica mettere in dubbio. 🙂  Sottolineavo soltanto che Tulse Luper e il suo mondo (Van Hoyten, ecc.) non nascono qui ma hanno alle spalle una storia decennale e svariate incarnazioni greenawayane.

    Se hai intezione di vedere "The falls", comunque, tieni conto che si tratta di qualcosa di davvero atipico, persino per gli standard di Greenaway: un incrocio fra un mockumentary e un’enciclopedia filmata, fra l’umorismo surreale british e la fantascienza apocalittica. Assolutamente non per tutti i gusti.

    Ciao
    Christian

  10. uno dei migliori greenaway, dove il regista dà pieno sfogo alle sue micronarrazioni e alla contaminazioni artistiche. non trovo autocompiacimento nel lavoro del regista inglese, quanto un’offerta di piacere allo spettatore. piacere eccentrico, visivo, cerebrale, ma non per questo meno forte e godibile.
    concordo con christian nel ricordare e suggerire the falls, opera borgesiana da subito radicale e molto vicina alle idee di tulse luper.

  11. Secondo me, invece, pur essendo vere tutte le cose che dici e pur essendo comunque alta la qualità del film, in Greenaway c’è molto autocompiacimento.

  12. per definizione ogni artista mette in mostra se stesso. rembrandt, borges, lynch… eppure greenaway più di altri incorre in critiche simili. probabilmente perché fa il suo cinema, e lo fa evocando esplicitamente modelli alti. se tutto il cinema fosse come greenaway sarebbe noiosissimo, ma se non ci fosse greenaway mancherebbe un pezzo di cinema.

  13. Sicuramente è vero anche questo, in ogni artista c’è un pizzico di autocompiacimento, è normale che sia così. A volte però in Greenaway si nota una certa spocchia, non so nemmeno precisamente come descriverlo come atteggiamento. Questo non vuol dire ovviamente che il suo sia un cinema da criticare, tant’è che io lo apprezzo molto come regista, soprattutto per le pellicole che nei precedenti commenti ho citato.

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