Piccoli affari sporchi




REGIA: Stephen Frears

CAST: Audrey Tatou, Chiwetel Ejiofor, Sophie Okonedo, Sergi López

ANNO: 2002

 

Owke, un nigeriano che vive da clandestino a Londra, lavora di giorno come tassista e di notte come portiere in un albergo. Per dormire, anche se pochissimo, ha preso in affitto il divano di Senay, immigrata turca che lavora come cameriera nell’albergo. Attorno a loro una serie di personaggi, tutti immigrati che ruotano nel sottosuolo londinese. Una notte, Owke, scopre qualcosa di sconcertante: all’interno del bagno di una stanza dell’hotel, nel water trova un cuore umano…

 

Un film che parte come una cosa, per poi diventarne un’altra e finire come un’altra ancora. Non propriamente un difetto, anzi, i vari registri narrativi non pesano sull’equilibrio e l’economia della pellicola, ma molto probabilmente concentrarsi totalmente su uno o un paio di essi sarebbe stato più indicato, anche perché, è proprio la prima parte quella che sostanzialmente risulta la più riuscita e la più coinvolgente. “Piccoli affari sporchi”, ennesimo cambiamento di stile e registro di Stephen Frears, comincia proprio come un noir d’atmosfera, quei film notturni che colpiscono proprio per l’ambientazione e la proposizione di avvenimenti misteriosi e oscuri. Ecco che allora lo spettatore è sempre più curioso di scoprire cosa stia a significare quel cuore umano ritrovato nel water del bagno di una stanza d’albergo e cosa si celi dietro la figura dell’enigmatico e misterioso protagonista, immigrato clandestino a Londra, che fa due lavori diversi per mantenersi, senza quasi mai dormire, tenendosi sveglio con delle strane erbe, e che in passato molto probabilmente è stato addirittura un dottore, così come si vocifera tra i suoi conoscenti e amici. A questo blocco narrativo molto suggestivo anche dal punto di vista registico e formale (con lo scrutamento attento degli ambienti e dei volti in esso inglobati e ingabbiati), ne fa seguito un altro altrettanto interessante, soprattutto dal punto di vista etico e comunicativo, dato che ci viene posta di fronte la tematica dell’immigrazione e dell’integrazione di uno straniero in una metropoli come Londra, di cui non ci viene mai mostrata la “superficie” (quella che noi tutti conosciamo da turisti o da ammiratori di filmati e cartoline), ma propriamente il “sottosuolo” degli alberghi a ore, delle fabbriche clandestine, degli obitori, delle abitazioni nascoste e via di questo passo. Così ci vengono narrate le personalità di molti di questi immigrati, clandestini e non (difficile incontrare un inglese in questo “sottomondo” raccontato da Frears), a partire dal protagonista stesso, che si dimostra essere un uomo molto onesto e generoso, passando per la cameriera turca che divide clandestinamente con lui l’appartamento e che sogna di trasferirsi a New York, passando per una giovane prostituta di colore che frequenta giornalmente l’albergo e che pur sapendo quali sono i “piccoli affari sporchi” che ivi si svolgono non se ne cura fino a quando non entra in contatto con il protagonista, arrivando all’altro portiere russo che si esprime per motti e proverbi, al gestore dell’hotel, uno spagnolo spregevole e viscido, e al capo dell’agenzia di taxi che guida il protagonista, sempre affetto da malattie veneree a causa delle sue poco oneste frequentazioni. Ognuno di questi personaggi ci racconta una fetta della vita di questi uomini e donne senza terra, quelli che poi all’interno del film stesso vengono mostrati e poi dichiarati apertamente come degli invisibili, quelli di cui ci si serve per pulire le stanze, per guidare i taxi, per eseguire prestazioni sessuali, per poi essere completamente ignorati e dimenticati. Quelli che non possono permettersi neanche l’amore, visto che il loro unico obiettivo è la sopravvivenza. Ed è qui che si riallaccia il terzo filone narrativo che va a chiudere e concludere la narrazione di questo “micro-mondo” di disperati, di vittime e carnefici. Trattasi del sottile e via via più pressante innamoramento tra il protagonista, all’inizio alquanto flemmatico poi sempre più attivo in ognuno dei tre filoni succitati, e la cameriera/operaia turca che perde completamente la testa, non solo per lo stile di vita occidentale vagheggiato da una cugina che gestisce un’attività a New York (sognata come la città illuminata anche di notte coi poliziotti che arrivano sui cavalli bianchi), ma anche per il protagonista, che continua a mantenere dei segreti fino alla fine, quando dopo una vendetta orchestrata fin nei minimi dettagli, vengono finalmente svelati per portare ad un finale che corre su un doppio binario. E’ sicuramente un finale positivo, anzi fin troppo consolatorio e moralistico nella punizione esemplare e significativa che viene riservata al “cattivone” della pellicola, recitato e scritto in maniera un po’ troppo fumettistica, ma non è un finale riconciliatore, visto che la “salvezza” arriva solo se si è disposti a sacrificare sempre qualcos’altro e a proseguire il proprio cammino da soli, con le proprie forze, i propri obiettivi e i propri desideri.

Ha il pregio di sorprendere all’inizio, allora, “Piccoli affari sporchi”, che ci aveva fatto presagire ben altro per quanto riguarda quel cuore umano ritrovato nel water (sorta di McGuffin che permette poi di proseguire con la reale natura della pellicola, ma anche elemento metaforico che ci trasmette il seppellimento e l’imbarbarimento dei sentimenti umani di questi personaggi emblematici), risultando essere poi qualcosa di ben diverso, ma di altrettanto agghiacciante e “criminoso” rispetto a ciò che sembrava inizialmente essere. Insomma gli affari sono sicuramente sporchi, ma decisamente non così piccoli come recita il film. Anzi, ci pongono di fronte alla meschineria umana da un lato, e alla disperazione che spesso porta ad essere complici, attivi o passivi, della stessa meschineria.

 


9 commenti su “Piccoli affari sporchi

  1. Mi verrebbero in mente i bei tempi di quando ero ragazzetta e passavo un sacco di tempo a dire stronzate!! Se sei la KaNyA che ho capito io, ovviamente. Come stai?

  2. bene bene ^_^ tu invece? ^^ mi farebbe tanto piacere rifare due chiacchiere 🙂 immagino tu abbia facebbok, quindi se mi aggiungessi ne sarei tremendamente felice ^^ [Gaia Balzamo, la ragazzina nella tazzina di caffè]

  3. Concordo Alessandra, anche se a me la parte finale, un po' troppo polpettosa non è piaciuta per nulla. Ma il clima da noir e il sottobosco umano di londra sono momenti efficaci nel film e quest'ultimo in particolare mi ha ricordato un po' My beautiful laundrette, uno dei primo film di Frears.

    Missile

  4. Gaia, ti ho cercata ma non ci sei.<— ma o.o sicura? ["la ragazzina nella tazzina di caffè" sarebbe l'immagine che ho come avatar, eh xP]

  5. Ho cercato sia Gaia Balzamo che Gaia Balsamo (nel caso avessi fatto un errore di battitura), manon mi dà nessun risultato nè in un caso nè nell'altro. L'avevo intuito che la ragazzina nella tazzina di caffè fosse l'avatar ^^

  6. l'ho visto un paio di volte, e sempre con piacere.
    certo, ci sono delle semplificazioni, diciamo così, ma è un film "classico", in cui perdono i bastardi e vincono i buoni.
    forse consolatorio, ma lo spettatore ha bisogno di storie "semplici", ogni tanto, e Stephen Frears è un maestro.

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