Piercing: il citazionismo cinefilo colto e stilisticamente impeccabile

Reed decide di partire per un viaggio in cui dovrà uccidere una prostituta, forse per liberarsi dall’opprimente presenza nella sua vita di moglie e figlia appena arrivata. Quando la prescelta arriva nella sua stanza di hotel, però, si rivelerà essere molto più difficile da uccidere di come aveva immaginato…

Nicolas Pesce per questo suo secondo film si affida a parecchi elementi che contribuiscono a renderlo notevole, nonostante in realtà sia alquanto inconsistente dal punto di vista dei contenuti. Tra questi ci sono in primis la scelta di una colonna sonora che omaggia ampiamente il giallo all’italiana con Dario Argento in cima alla lista (riconosceremo ovviamente le note di Profondo Rosso e Tenebre con i Goblin in prima linea) e poi un comparto estetico che, a partire dalla fotografia, passando per le scenografie e, in fase registica, per l’utilizzo sfrontato dello strumento dello split-screen, va a ricordare potentemente il cinema di Hitchcock, passando per De Palma, arrivando a Lynch.

Tutto questo per raccontare di un rapporto sadomasochistico che vede protagoniste due menti turbate che incontrandosi scoprono cosa vuol dire il vero piacere e il vero dolore, trovando forse ognuno nell’altro quello che stava realmente cercando. In un gioco al massacro che è una vera e propria rincorsa del gatto col topo, dove a turno ognuno dei due sarà sia gatto che topo, Pesce confonde le acque e ci fa capire che non sempre la vittima è solo una vittima e non sempre il carnefice è solo un carnefice.

Il tutto raccontato non lesinando la presenza di inserti da torture porn vero e proprio che faranno ritorcere le budella ai più deboli di stomaco e non solo, con fiotti di sangue che inonderanno i corpi dei protagonisti, rompighiaccio che verranno utilizzati per torturare fisicamente e psicologicamente ora la prostituta ora l’ignaro aspirante omicida, telefonate che ci faranno dubitare sulla reale esistenza della dimensione in cui si trovano i due e, soprattutto, inserti onirici che tentano la strada della “spiegazione” delle origini dei disturbi mentali dell’uomo (andando a pescare figure del suo passato, mescolandole a quelle del suo presente, per poi risultare comunque completamente inutili ai fini del racconto).

Il dubbio, infatti, pur restando intatta l’ammirazione per la perizia tecnica e per la finezza citazionistica da cui il film è pervaso, rimane quello di un esercizio di stile un po’ sterile e fine a se stesso, se non fosse che i due attori protagonisti reggono straordinariamente sulle spalle questo impalco stilistico (un Christopher Abbott che già dalla primissima sequenza incute una sorta di inquietudine data la sua espressione apatica nonostante i progetti che ha in mente e una Mia Wasikowska perfettamente calata nei panni di questa femme fatale depalmiana più fuori di testa del previsto).

Se ci aggiungiamo che sui titoli di testa e sui titoli di coda (sempre improntati al ricordo di un determinato tipo di cinema con il ricorrere del colore giallo come elemento primario, così come avviene anche nel corso del film stesso in cui appaiano telefoni, museruole e altri oggetti dello stesso colore), il film ci presenta una serie di abitazioni, palazzi, hotel, grattacieli palesemente finti, all’interno dei quali poi si sviluppa questo viaggio nella perversione mentale e nell’erotismo spinto dei due protagonisti (come a voler suggerire di essere in una dimensione irreale, quale quella delle pulsioni più recondite che ognuno di noi potrebbe nascondere nei meandri della propria mente, e qui ad essere preso di “mira” c’è sicuramente anche Cronenberg), allora il giochino risulta comunque riuscito, pur non cancellando totalmente la sensazione che di mero giochino, appunto, si tratti.

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