The Lighthouse: la follia dell’isolamento forzato e il fascino oscuro del “mito”

Due guardiani di un faro, uno più anziano ed esperto, l’altro alle prime armi, si ritrovano bloccati su un’isola del New England a causa di una terribile tempesta. L’isolamento e i presagi di oscure e imperscrutabili presenze, porteranno i due alla follia più inaudita.

Dopo il successo, meritatissimo, ottenuto con il folk-horror The Witch, in cui come in questo caso si declinavano in chiave horror miti, leggende e superstizioni, Robert Eggers torna al lungometraggio con un film che ha molti punti in comune col precedente, ma che al tempo stesso se ne discosta per molti versi.

Questa volta siamo di fronte ad un film ancora più criptico e molto meno “commerciale” del suo predecessore, con l’utilizzo di un bianco e nero funzionalissimo al racconto di questa discesa nei meandri della paranoia e della follia umana e con l’utilizzo della pellicola in 35 mm.

I protagonisti, magnificamente e magneticamente interpretati da Willem Dafoe e Robert Pattinson (soli per tutta la durata del film), si esprimono in un linguaggio arcaico, dialettale e marinaresco (siamo nel XIX secolo e, come in The Witch, il regista utilizza il linguaggio in maniera funzionale al racconto, rendendolo una degli elementi fondamentali dell’opera, forse il più significativo e rappresentativo), e a causa della loro convivenza forzata, della diversità di vedute su molte delle mansioni da portare avanti nel faro e della presenza di foschi presagi, nonché della natura che sembra ribellarsi a loro costringendoli ad una lunga permanenza sull’isola senza più provviste, arrivano a compiere azioni sempre più violente, cadendo ogni giorno che passa in un vortice di ossessioni, visioni e loschi presentimenti.

Il fascino della pellicola, ovviamente, risiede nel fatto che allo spettatore non è dato modo di capire se si tratta solo delle percezioni dei protagonisti (in particolare del più giovane dei due, relegato alle mansioni più degradanti e, soprattutto, escluso dall’accesso alla luce del faro, luce che assume dei contorni metaforici non indifferenti, sfiorando i rimandi al “mito” di Prometeo) o se realmente le creature dai contorni “lovercraftiani” come il tritone o la sirena che appare per ammaliare e poi terrorizzare il giovane aiutante, siano effettivamente presenti sull’isola, richiamate dal fatto che un gabbiano è stato precedentemente ucciso, cosa che non può che portare terribili conseguenze (così come racconta il più anziano dei protagonisti all’altro).

L’indeterminatezza della situazione e l’imperscrutabilità di quest’isola su cui risiede questa “luce” allegorica (viene persino il dubbio che il luogo in cui è ambientata la vicenda sia esso stesso reale o metafora di “altro”), trascinano nel dubbio e nell’inquietudine sia i due protagonisti che lo spettatore stesso, il quale può godere della visione di un horror psicologico molto intenso e coinvolgente e che può anche intrattenersi con tutti i rimandi culturali che l’opera contiene. Richiami che non risultano delle citazioni fini a se stesse ma che sono ben inseriti all’interno del racconto, rendendolo più affascinante e per certi versi sinistramente ambiguo, andando a comporre un mosaico fittissimo che risulta ipnotico e decisamente sconvolgente.

2 commenti su “The Lighthouse: la follia dell’isolamento forzato e il fascino oscuro del “mito”

  1. Questo è in grado di far passare il precedente “The VVitch” per un film per famiglie a livello di vendibilità 😉 Eggers sa davvero il fatto suo, e per quanto volutamente ermetico il film mi ha ipnotizzato, anche grazie a due attori in stato di grazia. Cheers

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