Swallow: la prigione dorata di una “famiglia” castrante e mostruosa

Hunter è sposata con un ragazzo bellissimo e ricchissimo, ma si sente fuori posto in una famiglia che la guarda dall’alto in basso. Quando rimane incinta qualcosa scatta nella sua mente e inizia a soffrire di picacismo, inghiottendo oggetti non commestibili come biglie, spille da balia, chiodi e pile.

Un horror psicologico che mostra poco ma trasmette tanto, riuscendo nell’intento di coinvolgere enormemente lo spettatore nel disagio vissuto dalla sua protagonista, trasmettendo angoscia dall’inizio alla fine e intrappolandola all’interno di un appartamento iper-lussuoso dove però è prigioniera di se stessa in primis, ma anche e soprattutto di un marito e di una famiglia ingerente, sempre pronta a farla sentire un’ospite mantenuta e, quando comincia a svilupparsi il suo disagio, anche imbarazzante e fastidiosa.

L’abilità del regista e, insieme a lui, della straordinariamente intensa protagonista (sentiremo parlare di Haley Bennett), sta nel descrivere l’orrore che questo disagio porta con sé con eleganza, senza mai ricorrere ai canonici mezzi del cinema horror, ma suggerendo la “mostruosità” di ciò che accade alla ragazza, solo con pennellate registiche che indugiano lentamente e inesorabilmente sugli oggetti ingeriti e poi esposti da Hunter su un vassoio dopo averli espulsi naturalmente.

Oggetti che, esposti come trofei appunto, rappresentano per la donna la realizzazione di un obiettivo, la “ribellione” allo stato delle cose che si ritrova a subire, la riuscita in qualcosa, l’elemento che la rende capace di un’individualità mai avuta. E quando Hunter, stretta dalle barre imprigionanti del marito e dei suoceri, sempre più opprimenti e castranti, sembra volersi rimettere in carreggiata per amore della vita, seppur vuota, che si è costruita con loro, ecco che la scoperta di un tradimento inimmaginabile da parte loro e il riaffiorare di un trauma del passato che l’ha segnata profondamente, la portano ad allontanarsi dalla gabbia dorata che la imprigiona per andare ad affrontare un “viaggio” che non è fatto di vendetta, come erroneamente ci si poteva aspettare, ma di consapevolezza e autoaffermazione.

Con il giusto mix tra primi piani che stringono il volto della protagonista in una morsa che sembra non lasciare via d’uscita e carrellate che si soffermano sugli oggetti sempre più pericolosi e assurdi che la ragazza ingurgita, Swallow, che per certi versi può essere considerato un body horror, con tre personaggi solo apparentemente marginali e di contorno, ci regala alcuni momenti clou utili a capire il percorso di Hunter e il senso generale del racconto: prima il collega del marito che le chiede un abbraccio perché si sente solo (abbraccio di cui sembra avere ancora più bisogno la ragazza), si dimostra vacuo e falso perché reitera questa richiesta ad ogni donna che incontra; poi l’infermiere tuttofare che viene assunto per controllarla, che all’inizio sembra disdegnarla dicendole che chi ha vissuto la guerra non ha tempo per farsi le fisime mentale che si fa lei, alla fine risulta la persona più umana con cui si trova ad avere a che fare; infine, un personaggio di cui non sveliamo l’identità per evitare spoiler, interpretato straordinariamente da Denis O’Hare, la riconcilia col suo passato e le dà la forza per incamminarsi verso il suo futuro, dimostrandole che si può venire a patti con se stessi, anche espiando le peggiori colpe e andando avanti trovando delle persone da amare e da cui essere amati davvero.

Swallow, quindi, ci lascia con una sensazione di speranza, nonostante l’aria malsana che si respira durante la visione e ci regala un’occasione per riflettere sulle difficoltà vissute da chi non viene accettato dalla società e dalla famiglia, arrivando ad assumere comportamenti che ad un occhio superficiale possono sembrare solo ed esclusivamente folli, ma che con la giusta sensibilità, devono essere visti come l’unico modo per salvarsi, toccando prima il fondo, per poi da soli, lentamente, risalire.

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