Un primo bilancio sul Festival di Roma




Il Festival internazionale del cinema di Roma si è ormai concluso con la vittoria inaspettata di un piccolo grande film, Opium war di Siddiq Barmak, sicuramente molto bello, ma forse non straordinario  come ad esempio l’incantevole El artista di Mariano Cohn e Gastòn Duprat. Il primo narra le assurde vicende di due militari americani che si ritrovano soli e sperduti in questo enorme campo dove viene coltivato l’oppio, abitato da una famiglia afgana che vive all’interno di un tank americano. Una marea di figli, tre mogli e un capofamiglia cercano di arrabattarsi come possono proprio grazie alla lavorazione e alla vendita dell’oppio. I due americani, uno bianco e l’altro di colore, dopo una serie di litigi e peripezie, devono cercare il modo di sopravvivere e di alleviare i loro dolori (viene da sé che l’oppio è una componente fondamentale di questo film). Dopo averci mostrato tutte le differenze di cultura tre le due “micro-società”, differenze a volte volutamente caricaturizzate, i due gruppi diventeranno col passare del tempo una sola grande comunità. Un messaggio di non poco conto, considerando le vicende che sconquassano il mondo al giorno d’oggi.

Il secondo, invece, ha come protagonista un giovane infermiere che sfrutta le abilità e il talento di un suo paziente anziano, vendendo i suoi lavori e i suoi quadri come se fossero stati dipinti da lui e diventando nel giro di poco tempo molto famoso e richiesto da un sacco di gallerie d’arte. Un’analisi molto sottile e intelligente sul mondo dell’arte, sul concetto stesso di arte e sul ruolo dell’artista in correlazione ad esso. Non manca anche una certa critica alla critica dell’arte, se è permesso il gioco di parole, raccontata con delle straordinarie sequenze a telecamera fissa che danno allo spettatore la sensazione di guardare dei quadri e delle opere d’arte, anche se in realtà nel film sono le opere d’arte a guardare i visitatori dei musei.

 

In concorso quest’anno anche alcune pellicole italiane, tra cui la fischiatissima Il sangue dei vinti di Michele Soavi, racconto un po’ falsato di quella che fu la storia della resistenza in Italia; l’apprezzato Glantuomini di Edoardo Winespeare che narra di una storia d’amore inficiata dai contorti meccanismi della Sacra Corona Unita nel Salento pugliese (per questa pellicola Donatella Finocchiaro ha vinto il Marc’Aurelio come miglior attrice); il “racconto” dello spettacolo teatrale di Christian de Sica, Parlami di me, girato da suo figlio Brando; lo sguardo sull’adolescenza odierna sempre più persa e incapace di trovare una strada, Cattive ragazze, di Matteo Rovere; la storia di un uomo che soffre e fa soffrire per amore, L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi; il racconto di un’amicizia molto pericolosa, Il passato è una terra straniera, di Daniele Vicari tratto dall’omonimo romanzo del magistrato barese Gianrico Carofiglio. Si aggiudica il primo posto tra le pellicole nostrane, a nostro parere, il particolare Galantuomini.

 

Interessanti anche le proposte provenienti da altri paesi del mondo a partire dal Brasile che è stato al centro di una sezione dedicata interamente a quel paese e al cinema da lì proveniente, con un sacco di pellicole che hanno sorpreso per qualità e spessore. In un tempo ridotto come può essere una settimana o poco più, si sono visionate pellicole su pellicole, alcune molto interessanti e particolari, altre, pur creando delle alte aspettative, a dir poco deludenti. Tra le piacevoli sorprese, che sono anche delle vere e proprie chicche, ci sono sicuramente Baghead, un film dei fratelli Duplass, girato con un budget irrisorio, dal forte stampo indipendente, che trasmette tutta la passione per il cinema e tutta la volontà di creare qualcosa di interessante e ben fatto anche senza ricorrere a capitali ingenti; JCVD di Mabrouk El Mechri, che segna il ritorno sul grande schermo della grande star di film d’azione degli anni ’80 e ’90, tale Jean-Claude Van Damme che con molto autoironia, ma anche con la volontà di uscire da un modello precostituito, si cimenta in questa sorta di biopic-mokumentary, regalandoci molte risate ma anche tante riflessioni sul cinema e su tutto ciò che lo circonda; With a warm heart di Krzysztof Zanussi, delizioso e divertente scontro-confronto tra due personaggi completamente opposti (Bohdan Stupha, che ha interpretato uno dei due, si è aggiudicato, sorprendentemente ma meritatamente il Marco Aurelio come miglior attore), che ci restituiscono tutto il valore della vita; Le plasir de chanter di Duran Cohen, un’esilarante e assurda storia di spionaggio e controspionaggio, con riferimenti all’amore e alla maniera di viverlo e di interpretarlo.

 

Tra le piccole grandi delusioni non è possibile non citare l’acclamato Pride & Glory che vanta la presenza nel cast di Jon Voight, Edward Norton e Colin Farrell (quest’ultimo protagonista di una deliziosissima conferenza stampa), ma che alla fine si rivela uno dei soliti polizieschi, ben girato, ma per nulla particolare od originale e The duchess, interpretato da due straordinari attori come Ralph Fiennes e Keira Knightley (qui davvero al massimo dell’espressività), si rivela sì un film esteticamente quasi perfetto, con un’ottima fotografia, ottime scenografie, ottimi costumi, interessante regia, ma anch’esso claudicante dal punto di vista dell’originalità (certamente un buon film, ma non eclatante come ci si sarebbe aspettato).

 

Particolarmente importante, soprattutto per il tema narrato, l’insieme di cortometraggi, 8, girato da alcuni registi molto noti come Wim Wenders, Jane Campion, Gus Van Sant, Mira Nair e l’attore messicano Gael Garcia Bernal, che mette in scena gli 8 obiettivi fissati dalle Nazioni Unite, per risolvere alcuni dei più grandi problemi del mondo, dalla mortalità infantile, alla povertà, ai problemi ambientali, alle pari opportunità, all’AIDS e via dicendo. Un progetto riuscito a metà, dato che non tutti i corti riescono a colpire in maniera particolare (deludono proprio quello dei registi dai quali ci si sarebbe aspettato di più, Van Sant e Wenders, la palma del migliore spetta invece a quello della Campion).

Interessante anche il fatto che quest’anno ben due pellicole, entrambe tedesche, in una maniera o nell’altra si siano occupate del tema della RAF (organizzazione terroristica che imperversò negli anni ’70 in Germania). Il primo è Schattenwelt di Walther, film molto secco e particolare che, ambientato ai giorni nostri, narra della storia di vendetta della figlia di una vittima della RAF; l’altro è La banda Baadher-Meinhof  di Uli Edel, straordinario film d’azione con un ottimo cast, che cerca di raccontare la nascita del fenomeno dal punto di vista dei protagonisti, senza cercare di idolatrare nessuno (come film d’azione è perfettamente riuscito, come semplice documentario della realtà di allora, forse è poco equilibrato).

 

Tra le piccole grandi sorprese, si aggiudicano il primo posto per semplicità e genuinità due pellicole completamente opposte, ma entrambe molto particolari: Middle of nowhere di Jane Stockwell e Easy virtue di Sam Elliott. La prima, con Susan Sarandon in un ruolo minore ma molto importante, di stampo prettamente indie, narra la storia di una grande amicizia che sconvolge le vite di un po’ di gente nel giro di una sola estate (l’oppio, come in Opium war, avrà il ruolo di protagonista); la seconda con la sorprendente Jessica Biel, il simpaticissimo Colin Firth, la grande Kristin Scott Thomas e l’imberbe Ben Barnes, è una commedia tipicamente inglese, ambientata negli anni ’30 e contrassegnata da una serie di situazioni assurde e di equivoci non indifferenti (il tema della suocera è quello portante).

 

Altro elemento ricorrente di questo festival è stato il grandissimo attore Viggo Mortensen, protagonista di ben due film, uno in concorso, l’altro in anteprima, e di una conferenza stampa dedicata completamente a lui. I film in questione sono, rispettivamente Good (a nostro avviso l’interpretazione per questa pellicola avrebbe meritato il Marco Aurelio), storia di un professore universitario che si ritrova quasi inconsapevolmente a “marciare” tra le file dei nazisti e Appaloosa, di e con Ed Harris, Jeremy Irons e Reneè Zellweger, un western anti-convenzionale con punte di ironia imperdibili, ma anche con emozioni molto forti (la conferenza stampa di questo film è stata la più apprezzata e applaudita di tutte). Ma grandissimo punto di forza di questa terza edizione del festival, sono stati proprio gli incontri con grandi artisti e star cinematografiche. Si è cominciato con il mitico Al Pacino, che ha donato più di un’emozione al pubblico accorso per ascoltare le sue interessantissime parole, fino ad arrivare allo straordinario David Cronenberg, molto disponibile e soprattutto ironico che ha tentato di spiegare la sua ossessione per la carne e le mutazioni, a Michael Cimino che ha illustrato le migliore scene di danza al cinema, al duetto Verdone-Servillo, fino a giungere a tutte le conferenze stampa dei vari film, con registi, produttori, sceneggiatori e protagonisti pronti a rispondere ad ogni domanda di ciascun giornalista.

 

Tirando le somme di questa interessante e coinvolgente esperienza non si può non asserire, nonostante i cambi di gestione e le critiche provenienti da più parti, che questa terza edizione del Festival internazionale del cinema di Roma, ha regalato una marea di emozioni e di contrastanti sensazioni che ci hanno fatto sentire parte integrante e, perché no, anche protagonisti, di questo magico mondo che è il cinema. Oltretutto, e questo è l’aspetto essenziale quando si parla di festival cinematografici, abbiamo avuto modo di visionare tantissime pellicole, tutte a loro modo molto particolari e stimolanti. Nessun capolavoro, tranne un paio di film di notevole spessore, ma tanti film buoni e discreti e solo qualche piccola delusione, come è logico che sia quando ci sono davvero un’infinità di film da poter guardare nell’arco di così poco tempo. Un’ottima occasione per vivere e respirare il cinema, con incontri davvero illuminanti e affascinanti e con un bagaglio culturale sicuramente più arricchito ed ingrandito.

 

Pubblicato su www.livecity.it

 

 

5 commenti su “Un primo bilancio sul Festival di Roma

  1. Mi interessano moltissimo i film di Winspeare, di Zanussi e di Ed Harris. E se ne ho l’occasione vorrei vedere il film tratto dal romanzo di Carofiglio.

    Nel complesso quindi sicuramente un’esperienza che ti ricorderai per tutta la vita. E quella è la cosa che conta di più. 🙂

    Un salutone

  2. Si pickpocket, la ricorderò per molte cose, non solo per l’aspetto cinematografico e comunque è stata la prima esperienza di questo genere, quindi è sicuramente importante.

    Chimy, no, quello non sono riuscita a vederlo.

  3. Volevo dirti che sono stata molto felice di conscerti di persona!

    Avrei voluto parlare un pò di più con te, ma i tremila impegni che avevamo me l’hanno impedito!

    Però almeno una fotina insieme potevamo farla!

    Sei una persona molto simpatica e solare e gentilissima!

    Un bacione e speriamo di incontrarci il prossimo anno!

    🙂

    Valentina

  4. Eh, Valentina ci credi che di foto dove ci sono io ne ho solo 4? 4 foto in dieci giorni, e sono quelle in gruppo, dove ci sei anche te. Praticamente non avevo manco il tempo per respirare. Comunque anche tu sei stata molto carina e gentile. Spero anche io di poterci essere il prossimo anno e soprattutto di avere più tempo per chiacchierarare!!

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