Vivarium: il labirinto imprigionante di una vita “preimpostata” che fa accapponare la pelle

Tom e Gemma stanno insieme da poco ma sentono che è arrivato il momento di cercare casa insieme e iniziare a costruire qualcosa. Uno strambo agente immobiliare li accompagna nel complesso residenziale Yonder, dove le case e le strade sono tutte perfettamente uguali e mostra loro l’appartamento numero 9, già impostato per una vita familiare perfetta, con tanto di cameretta per eventuali bambini. Mentre i due perlustrano l’abitazione, si accorgono che l’agente è scomparso e quando cercando di allontanarsi con la loro auto, si rendono conto che uscire dal complesso sarà assolutamente impossibile.

Allegoria neanche tanto velata sul “male di vivere” che sicuramente chiunque di noi almeno una volta “ha incontrato” durante la propria esistenza, visto che lo schema su cui è costruita la vicenda è una metafora di quanto imprigionante, abbrutente, spersonalizzante e terrificante possa essere una vita vissuta seguendo i dettami imposti dalla società, dal vivere comune, dalle aspettative altrui che spesso si fondono e si confondono con i propri stessi istinti, castrandoli e costringendoli tra le quattro mura domestiche, seppur finemente arredate.

Ecco che, nonostante si stia insieme da poco, è fondamentale per un coppia trovare una casa, così come è fondamentale che sia in un quartiere di un certo tipo e corrispondente alle caratteristiche adeguate per far sì che un giorno ci si possa metter su famiglia. Così come è scontato che ad assumersi l’onere della fatica fisica all’interno di una coppia sia l’uomo (fa davvero impressione vedere il protagonista giorno dopo giorno scavare ossessivamente una buca che non porterà a nulla, anzi alla sua “distruzione” letterale e non), mentre a tenere vivo il focolare domestico e a prendersi cura della prole con dolcezza e spirito protettivo debba essere ovviamente la donna (anche se in questo caso rimane impressa in maniera notevole la volontà della protagonista nell’affermare di non essere madre).

Tutto questo viene raccontato con toni fantascientifici che ammantano di mistero e inquietudine questo thriller psicologico in cui i malcapitati di turno (la cosa che rende la pellicola un’esperienza totalmente immersiva è il fatto che chiunque di noi, davvero, può immedesimarsi nei due ragazzi) saranno costretti a rimanere imprigionati nella casa dei “sogni” che stavano cercando, dovendosi sobbarcare il compito di crescere un bambino, creatura malefica e inquietantissima, per poi finalmente liberarsi dalla labirintica prigione in cui sono incappati una volta portata a termine la “missione” (con tanto di nuvolette perfette in un cielo sempre limpido e immobile e di prati selciati e perfettamente tenuti). Ma in fondo, così come viene fatto dire nel finale dal “bambino” in questione, cosa è una madre? Una madre è “qualcuno che prepara suo figlio al mondo” e poi muore.

Tutto questo viene raccontato facendo ricorso alla dicotomia tra le atmosfere cupe e i toni angoscianti della colonna sonora (ad esclusione dei brani allegri, ma dai contenuti “profetici” che i due riescono ad ascoltare all’interno della loro auto, unico luogo in cui poter tornare per poco ad essere se stessi) e la quasi perfetta rappresentazione del sogno americano (e non solo) dell’ambientazione e della scenografia con l’abitazione che chiunque, forse, desidererebbe, ma che si fa simbolo però, in questo caso, di una vera e propria prigione imposta dai canoni imperanti della società in cui viviamo, ma in cui spesso siamo noi stessi a ficcarci, consapevolmente o no.

Vivarium, quindi, potrebbe essere considerato una via di mezzo tra The Truman Show e Pleasentville, con venature horror. In questo caso, però, gli intenti e la natura dei “burattinai” di questo “teatrino” terrificante, vengono lasciati volutamente nell’ombra, restituendoci una sensazione di indeterminatezza e di incapacità di difendersi che lascia decisamente con i brividi addosso anche a termine della visione.

6 commenti su “Vivarium: il labirinto imprigionante di una vita “preimpostata” che fa accapponare la pelle

  1. Alla fine l’hai visto. “Lieta” che abbia angosciato anche te allo stesso modo, il che confermerebbe la validità di un’opera purtroppo molto universale.

  2. Ahimè sì, cioè ti stringe proprio nella sua morsa sto film… anche perché in molte cose mi ci sono ritrovata, ma penso il 90% della popolazione mondiale 🙂

  3. Sì, vieni proprio trascinato all’interno di quella casa.
    Comunque, sì, vengo a leggerti molto volentieri 🙂

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