Specularità: il tema del doppio come leit-motive nel cinema


Sarà che la nostra società e l’umanità intera vive un periodo cupo e pessimistico nel quale quasi nessuno riesce ad affermarsi e ad esprimere se stesso nella propria totalità, vedendosi costretto a duplicare (se non moltiplicare) la propria persona; sarà che si tratta di un argomento intrigante e affascinante tale da poter rappresentare un aspetto che invita alla visione e alla riflessione; sarà che nonostante sia stato ormai sdoganato, va molto di moda; sarà che pur essendoci ormai abituati e pur partendo il più delle volte prevenuti su determinati e possibili finali spiazzanti, alla fine riusciamo sempre a rimanere sorpresi e incantati; sarà il complesso di tutti questi elementi, ma una cosa è certa: il tema del doppio, cinematograficamente parlando, ha una potenza comunicativa non indifferente e una capacità unica di incantare, conquistare, ammaliare e sedurre lo spettatore, come forse nessun altro argomento è riuscito e riesce a fare (sempre se fatto in maniera tale da discostarsi per qualche caratteristica particolare da tutte le altre pellicole dello stesso filone e, ovviamente, con le dovute eccezioni di film che nonostante l’importanza del tema e la fortuna di sfruttare un elemento con simili capacità attrattive, non riescono a superare la patina della grigia e triste mediocrità). Il tema del doppio può manifestarsi ed esprimersi visivamente e narrativamente in diverse maniere: una stessa persona che vive due vite distinte e separate ma parallele, consciamente e non; due persone praticamente uguali che si fanno spacciare per un unico individuo (e non necessariamente gemelli); trasformazioni fisiche vere e proprie che rendono impossibile il riconoscimento e il discernimento; sdoppiamenti di personalità e di fisicità veri e propri; supereroi con la doppia vita tenuta nascosta a tutti; e si potrebbe continuare all’infinito. L’esempio lampante, e anche il più importante, di quanto andiamo affermando è la trasposizione cinematografica, anzi le trasposizioni cinematografiche, di un romanzo famosissimo e molto letto. Trattasi di Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde (1886) le cui vicende narrate sugli schermi, nei teatri, nelle versioni animate e addirittura nei fumetti hanno avuto un’immensa fortuna e un enorme favore di pubblico e di critica. Tutto ebbe inizio nei primi anni ’10 e ‘20 dello scorso secolo con una serie di film omonimi liberamente tratti dal noto romanzo, ma il grande successo è arrivato nel 1941 con Victor Fleming che ha riunito un grande cast stellare (Spencer Tracy, Lana Turner, Ingrid Bergman) per raccontare la storia della doppia personalità del dottore e del suo terribile “gemello” cattivo. Successivamente ogni decennio ha avuto la sua versione più o meno riuscita e non sono mancate nemmeno le parodie come Gianni e Pinotto contro il dottor Jekyll (Charles Lamont, 1953) o Le folli notti del dottor Jerryl che vede Jerry Lewis come interprete e come regista (1963). Di particolare interesse è l’operazione ardua posta in atto dal grandissimo Jean Renoir nel 1959 che prende l’idea di base e la stravolge cambiando addirittura il messaggio e il punto di vista: nel suo film intitolato Il testamento del mostro (in originale Le testament du docteur Cordelier) la vicenda è ambientata a Parigi e non a Londra e il dottor Jekyll si chiama dottor Cordelier e invece di trasformarsi nel terribile Mr. Hyde, diventa il tremendo, ma scanzonato, Monsiur Opale (le simpatie del regista sono rivolte tutte a quest’ultimo, piuttosto che allo scienziato colpevole di aver travalicato i limiti del lecito e del possibile). Un’altra operazione che, partendo dall’idea iniziale, stravolge il contenuto è il non molto riuscito film di Stephen Frears intitolato Mary Reilly (1996), interpretato da Julia Roberts nel ruolo della protagonista a cui è dedicata principalmente la pellicola (e cioè una cameriera al servizio dell’uomo dalla doppia personalità) e dal sibillino John Malkovich nel ruolo di Dr. Jekyll/Mr. Hyde. Ma il personaggio emblematico è talmente entrato nell’immaginario collettivo, che appare come protagonista anche in altri film non incentrati sulla sua figura come ad esempio quella sorta di reunion di supereroi che è La leggenda degli uomini straordinari (Stephen Norrington, 2003) e la stessa figura del supereroe Hulk (a cui sono dedicati altrettanti fumetti, cartoni animati e film) è ispirata ovviamente alla figura enigmatica di questo dottore/mostro.



Ma non è detto che il doppio debba sempre essere più cattivo della personalità originale da cui nasce, in molti casi è solo più potente, più affascinante, più capace, più felice, più furbo, ma sempre “più”. Basti pensare a Bruce Wayne/Batman nei numerosi film a lui dedicati interpretati sempre da star di primo livello da Michael Keaton nelle versioni burtoniane a Val Kilmer e George Clooney in quelle di Schumacher fino ad arrivare a Christian Bale nella versione di Christopher Nolan (che sta per regalarci un’ulteriore puntata della saga), che in quelle vesti acquistano maggiore fascino e misteriosità. Ma il contrasto tra persona ed eroe è reso ancora più netto da altri due grandi supereroi che stravolgono completamente se stessi una volta assunti i panni del loro alter ego: Clark Kent/Superman, portato al successo dal grandissimo Christopher Reeve e Peter Parker/Spiderman interpretato dal giovane Tobey McGuire nei fortunatissimi ma non molto pregevoli Spiderman 1, 2 e 3 (Sam Raimi, 2002-2004-2007). Si potrebbe continuare citando qualsiasi supereroe che si rispetti, ma si andrebbe a toccare un altro filone che si discosta dal principale interesse di questo articolo. Molto spesso la voglia di esprimere la propria personalità repressa si esplica con la creazione di una vera e propria personalità distinta e separata dalla nostra, che assume anche connotati fisici diversi dai nostri e che ci appare talmente reale da non renderci conto che si tratti di noi stessi. Vengono subito in mente tre esempi fondamentali: il fantastico Fight club (David Fincher, 1999), nel quale l’impiegato frustrato e infelice Edward Norton, trova un amico affascinante e intraprendente in Brad Pitt, una sorta di anarchico terrorista che altri non è se non una parte di sé stesso, quella parte che vuole ribellarsi al sistema e alla propria prigionia mentale ed intellettuale; l’ingarbugliato ma sensualissimo Mulholland Drive (David Lynch, 2001) nel quale le due protagoniste, Naomi Watts e Helena Laura Harring assumano a vicenda ognuno il ruolo dell’altra e non solo, in un intricatissimo gioco di scambi di personalità che è anche un gioco di incubi e deliri; The machinist – l’uomo senza sonno (Brad Anderson, 2004) in cui assistiamo ad un’impressionante trasformazione fisica dell’attore Christian Bale (abituato ad avere a che fare con il tema da noi trattato non solo per quanto riguarda Batman e il succitato film, ma anche per The Prestige nel quale il doppio ha un’importanza capitale), dimagrito di ben 35 chili per interpretare l’uomo asfissiato dal senso di colpa e incapace per questo di dormire, che arriva a creare un alter ego fisicamente opposto a lui in modo tale da riuscire a risalire alla fonte del suo senso di colpa. Quasi sempre però è la stessa persona (e quindi anche lo stesso attore) ad interpretare due ruoli diversi e ad assumere diverse e contorte personalità, consapevolmente o meno, per i più disparati motivi: per amore, per denaro, per vendetta, per mancanza di equilibrio mentale, per paura, per gioco, per necessità, ecc… Tra i personaggi che consapevolmente hanno fatto “il doppio gioco” ricordiamo il pestifero bambino di Io sono Sean (Johnatan Glazer, 2004), che invaghitosi della bellissima Nicole Kidman rimasta vedova, si appropria dei suoi ricordi e delle sue lettere per assumere la personalità del marito defunto; lo psichedelico e terrificante Norman Bates/Anthony Perkins di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960), che è succube della personalità prepotente e straripante della defunta madre (capolavoro del cinema noir che il grande Gus Van Sant ha tentato di riproporre nel 2000, senza però riuscire ad eguagliare la perfezione e la grandezza dell’originale); l’enigmatico Tom Stall/Viggo Mortensen in A history of violence (David Cronenberg, 2005) che ha completamente stravolto la sua vita, cambiando nome, identità e persino fisicità per dimenticare un oscuro passato (ma del resto il tema della metamorfosi, dello sdoppiamento di corpo e psiche è un “chiodo fisso” del regista canadese che l’ha riproposto in numerose pellicole, tra cui anche la sua ultima fatica interpretata sempre dal grande Mortensen, La promessa dell’assassino, 2007); il dottor Robert Elliot/Michael Caine di Vestito per uccidere (Brian de Palma, 1980) che assume addirittura una tripla personalità, di cui una femminile, per riuscire ad affermare le sue voglie represse, sessuali e non; l’affascinante Tom Ripley/Matt Damon de Il talento di Mr. Ripley (Anthony Minghella, 1999) che assume l’identità del suo amico di cui è allo stesso tempo innamorato, succube, geloso e invidioso. Ma non sempre gli ignari protagonisti di questi film incentrati sul doppio, sono consapevoli della scissione della loro personalità e del duplice ruolo che svolgono all’interno delle vicende narrate. L’esponente forse più rappresentativo di questa categoria, che ha dato poi il via ad una serie di personaggi a lui ispirati e che ha creato “un filone nel filone” facendo assumere a determinati finali cinematografici l’aggettivo di shyamalano (da M. Night Shyamalan il regista del film in questione) è lo psicologo Malcom Crowe/Bruce Willis de Il sesto senso (1999) che prende in cura un bambino che crede di vedere la gente morta che non riesce ad abbandonare questa terra perché ha lasciato questioni irrisolte (un po’ come il Sam Wheat/Patrick Swayze di Ghost che però era consapevole di essere un fantasma) per poi rendersi conto solo alla fine e dopo un tortuoso percorso di essere egli stesso uno di quelli.






Con un finale shyamalano (e cioè consistente nel rivelare la doppia personalità di personaggi la maggior parte delle volte inconsapevoli delle loro condizioni di ambivalenza) sono costruite numerose pellicole, più o meno fortunate e più o meno di qualità, prima tra tutte la succitata The prestige (Christopher Nolan, 2006) che gioca non solo sulla dualità e rivalità dei due attori protagonisti, Hugh Jackman e Christian Bale, ma che rivela un’ulteriore sorpresa mostrandoci solo alla fine l’esistenza di un gemello tenuto ben camuffato e nascosto. Non è da meno l’inquietante ed elegante The others (Alejandro Amenàbar, 2001) nel quale Nicole Kidman e figli vengono spaventati a morte da presenze da loro ritenute ultraterrene per poi scoprire che in realtà a disturbarli erano gli umani venuti ad abitare nella loro casa che non hanno ancora abbandonato, nonostante siano morti (e quindi i fantasmi in realtà sono loro). Un po’ meno riuscito, invece, l’ambiguo David Kallaway/Robert De Niro di Nascosto nel buio (John Polson, 2005) che tenta di scoprire con tutte le sue forze l’identità del malefico amico immaginario della sua piccola bambina che altri non è se non un sé stesso completamente sdoppiato da lui; e un po’ meno conosciuto, ma davvero efficace nell’esprimere la nostra tematica è il Carter/John Lightow di Doppia personalità (Brian de Palma, 1992) che ha multiple personalità (maschili e femminili) tutte più o meno maligne create da un esperimento scientifico di suo padre. Ma del resto, de Palma che ha appreso egregiamente la lezione hitchockiana (il Genio aveva a cuore il tema come dimostra anche la sua famosa pellicola Vertigo del 1958 nella quale la stessa donna compariva a svolgere due ruoli diversi, ingannando il protagonista), col tema del doppio ci ha marciato parecchio e non solo con i già citati Vestito per uccidere e Doppia personalità, ma anche col più recente Femme fatale (2002) nel quale la protagonista Rebecca Romijin-Stamos vive, senza rendersene conto, una doppia vita assumendo ruoli completamente opposti e differenti. Ma a rendere ancora meglio il concetto della duplice esistenza vissuta inconsapevolmente ci pensa Helen Quilley/Gwyneth Paltrow di Sliding doors (Peter Howitt, 1998) che vede dividersi la sua vita in due parti distinte e separate una volta attraversate le porte di un metrò. Ci ha provato anche Randell Wallace con La maschera di ferro (1998) contornando la vicenda in un contesto storico molto affascinante che è quello della corte francese ai tempi di Luigi XIV, inventandosi la figura di un gemello tenuto nascosto per anni. Leonardo di Caprio dà il meglio di sé come attore nel tentare di rappresentare le due diverse facce della stessa medaglia: il bene e il male, non riuscendo però a sollevare il livello della pellicola (che vanta un parterre di attori non indifferente, da Jeremy Irons, a John Malkovich, a Gerard Depardieu, a Gabriel Byrne) che rimane impigliato nella retorica e nella banalità e che si contraddistingue solo per la maestosità delle scenografie e dei costumi. Mentre ci è riuscito egregiamente Peter Greenaway che con Lo zoo di Venere (1985) ha dato vita a due figure estremamente emblematiche della condizione di specularità e duplicità, due gemelli che hanno perso le corrispettive mogli in un incidente d’auto e che col passare del tempo si legano talmente tanto in questo loro dolore da diventare addirittura siamesi, il tutto condito da un’atmosfera estremamente surreale e grottesca. Ancora più rappresentative due pellicole dello straordinario regista che è stato Stanley Kubrick e cioè lo psicopatico Jack Torrance/Jack Nicholson di Shining (1980) nel quale lo scrittore entrava in una sorta di trance una volta che cominciava a scrivere il suo romanzo e il suo ultimo capolavoro Eyes wide shut (1999), dove Bill Harford/Tom Cruise, come reazione ad una scoperta sconcertante riguardante sua moglie, vive in una notte di completo delirio ed estraniazione da sé stesso, mascherandosi e assumendo una personalità segreta.







Ma anche il cinema più leggero e della commedia si è appropriato del tema per rivisitarlo in chiave ironica e comica, prendendo un po’ in giro il genere e riuscendo a parodiare in maniera divertente e spassosa l’accattivante e fortunatissimo filone. Primo su tutti il grandissimo Woody Allen che ha girato e interpretato l’esilarante La maledizione dello scorpione di Giada (2001) nel quale il detective C.W. Briggs si ritrova ad indagare su un fantomatico ladro di gioielli, che altri non è se non lui stesso ipnotizzato da una sorta di fachiro-delinquente che gli ordina di effettuare le rapine e che subito dopo, grazie ad una parola magica, gli fa dimenticare i furti. Interessante anche il tentativo di diversificare il genere natalizio o il cosiddetto cinepanettone, compiuto da Terry Zwigoff con Babbo Bastardo (2003) nel quale un esilarante Billy Bob Thornton è costretto a vivere una doppia vita per potersi mantenere: durante tutto l’anno un ubriacone scansafatiche e nullafacente, nel periodo natalizio un Babbo natale un po’ sui generis. Per rimanere in casa, non è possibile non citare lo strampalato Roberto Benigni/Dante/Johnny di Johnny Stecchino che interpreta contemporaneamente la parte di un terribile mafioso che per paura di essere seccato cerca un sosia, Dante appunto, che però a sua detta non “gli somigghia pè gnente”. In conclusione, possiamo affermare che, tra alti e bassi, da tempi immemori il cinema, e non solo, si è sempre occupato con un occhio attento e vigile di questo particolare argomento che nonostante il passare degli anni e l’utilizzo quasi estremo e inflazionato, non ha subito i segni dell’usura e non ha smesso di interessare milioni di spettatori che non si solo si appassionano, ma che riescono anche ad immedesimarsi nelle vicende dei protagonisti che in realtà altro non sono se non delle metafore di una grande e fortissima verità: tutti noi, anche senza essere posti davanti ad uno specchio, ci rendiamo conto di non poter circoscrivere la nostra personalità, i nostri desideri più reconditi, le nostre paure, le nostre emozioni e sensazioni in un’unica classificazione, in un unico corpo e in un’unica mente.

Pubblicato su: Rapporto confidenziale

14 commenti su “Specularità: il tema del doppio come leit-motive nel cinema

  1. Un bell’excursus, Ale.

    Però una cosa me la devi far dire, non resisto:

    ma non molto pregevoli Spiderman 1, 2 e 3″

    No, no e poi no. Cattiva!

  2. Ti ringrazio moltissimo chimy, questo pezzo lo scrissi tempo fa ed era la prima volta che mi cimentavo in qualcosa che non fosse una recensione. Tutto sommato poteva andare peggio no? XD

  3. Bellissimo post. Complimenti. Il tema del doppio poi mi affascina e mi interessa da molto tempo. Se ne sei attratta ti consiglio la lettura (avrai già notato il testo tra le note che ho il vizio di aggiungere ai miei post) di Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli UE, 1982. E’ un argomento (il doppio)che coinvolge la vita immaginaria dell’uomo (pensiero, sogno, arte) sotto ogni aspetto e in ogni momento. Per Morin l’immagine mentale è un riflesso, un doppio, quindi un’assenza. Ne voglio ancora di post così. Grazie^^

  4. Luciano, ti avevo risposto ma splinder evidentemente non ne vuole sapere. Comunque grazie davvero di cuore. Cercherò di reperire il libro che mi consigli.

    Damiani, davvero troppo gentile, grazie mille.

  5. Bel post, ottimo lavoro! De Palma, Hitchcock e Greenaway sicuramente secondo me i più abili nel “narrare la doppiezza”.

    Un salutone

  6. complimenti per l’excursus…un argomento stimolante…ricordo anche il bellissimo “Mr Klein” di Losey con Delon e “Sisters” di De Palma e il bellissimo “Jekyll & Hyde” di Mamoulian (tuttora il migliore)…saluti da un doppio…ti ho linkata e Forza Rapporto Confidenziale!

    Zonekiller/Sam

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