La terra




REGIA: Sergio Rubini

CAST: Fabrizio Bentivoglio, Sergio Rubini, Emilio Solfrizzi, Massimo Venturiello, Paolo Briguglia, Claudia Gerini, Giovanna di Rauso, Marisa Eugeni

ANNO: 2006

 

TRAMA:

 

Luigi, professore di filosofia all’università di Milano, ritorna dopo molti anni nel sud-Italia, a Mesagne suo paese Natale. Qui dovrà riuscire a riappacificare i suoi tre fratelli in lite per la vendita di una terra da loro ereditata. Nel bel mezzo delle loro beghe familiari, Tonino, lo strozzino del paese, viene ammazzato e ad essere sospettati sono proprio due dei fratelli di Luigi.

 



ANALISI PERSONALE

 

Sergio Rubini torna ad occuparsi in maniera profonda e intensa della sua terra d’origine, troppo presto abbandonata per seguire le sue velleità artistiche. E se con i suoi precedenti lavori aveva inserito i suoi racconti nel cuore della Puglia, restituendoci uno spaccato molto vivido e reale di una terra così ricca e misteriosa, con La terra quello che più ci arriva è proprio quella sorta di legame atavico che lega, volenti o nolenti, ognuno di noi alla propria terra. Una terra che possiamo anche odiare, negare, disprezzare, ma che indissolubilmente nel profondo ci caratterizza e sostanzialmente contribuisce, anche se ci si allontana da essa, a delineare la nostra natura, la nostra personalità, quello che siamo nella nostra totalità. Un legame che possiamo anche dimenticare, cancellare, allontanare o nascondere, ma che prima o poi riaffiora prepotentemente nei momenti più impensabili, o nelle situazioni che ci spogliano di qualsiasi maschera, costruita da noi stessi o formatasi naturalmente nel corso degli anni, facendo emergere quella che è la nostra vera essenza, la nostra vera e propria natura. Altamente esplicativa al riguardo la sequenza nella quale Luigi in preda al delirio più totale, sconfortato dagli infiniti problemi creati dal suo ritorno a casa, durante un alterco con un cameriere torna istintivamente ad esprimersi in quel dialetto ormai dimenticato e inutilizzato per anni. Un discorso antropologico sul quale si può anche dissentire, ma che sostanzialmente riguarda tutti coloro che per un motivo o per l’altro, in maniera forzata o volontaria, hanno dovuto o voluto allontanarsi per anni dalla propria terra d’origine per poi tornarci, trovandosi a dover  pareggiare i conti con una realtà che si è abbandonata ma che non ha mai reciso il suo cordone ombelicale, palesando tutti quelli che sono gli aspetti positivi e negativi del posto che in un modo o nell’altro ha contribuito alla propria formazione, alla propria genesi. In questo senso La terra è percorso da un fremito che colpisce potentemente lo spettatore ponendolo di fronte allo stesso dilemma che va ad ingarbugliare la tranquilla esistenza del mite Luigi (un fantastico Fabrizio Bentivoglio inizialmente contratto in una perenne espressione impassibile che si trasforma pian piano in un susseguirsi di emozioni contrastanti proprio a dimostrazione del fatto che la nostra vera essenza si palesa proprio quando siamo a contatto con la nostra “terra”), trovatosi ad affrontare un ritorno a casa non previsto, a tratti doloroso e complicato che farà venire a galla molti quesiti lasciati irrisolti, posti nel dimenticatoio. E’ giusto dimenticare tutti colori che si sono amati e che ci hanno amato per inseguire i propri obiettivi tagliando completamente i ponti con il proprio passato? (una nota di autobiografismo percorre quasi tutte le pellicole dell’attore-regista pugliese). Questo uno dei tanti quesiti che Luigi si ritrova ad affrontare, e insieme a lui anche lo spettatore che accompagna la visione di straordinari scorci di paesaggi (le campagne di ulivi si alternano a straordinarie spiagge bagnate da un mare paradisiaco, il tutto fotografato con una sorta di alone mistificatorio dato che questi luoghi nascondono un marciume e una corruzione che costituiscono l’altro risvolto della medaglia di una terra amata e al tempo stesso odiata) con delle riflessioni di non poco conto sul rapporto uomo-terra.

 

Tralasciando la stereotipicità con la quale sono designati la maggior parte dei personaggi – l’uomo politico con problemi economici, il contadino buzzurro, il bravo ragazzo filantropo e generoso, la ragazzina innamorata che fa il filo al fratello più grande, ma soprattutto la compagna gelosa e pedante – tutti i protagonisti di questa pellicola sono recitati in maniera davvero molto convincente. Primeggia il già citato Bentivoglio, ma non sono da meno il grande Emilio Solfrizzi in bilico ma perfettamente equilibrato tra tragicità e comicità e il coriaceo Massimo Venturiello un vero e proprio “bastardo” che dà filo da torcere a tutti gli altri fratelli. Convincono di meno il giovane Paolo Briguglia nel ruolo del fratello più piccolo e l’insignificante Claudia Gerini (solitamente discreta attrice) qui chiamata ad interpretare un ruolo non solo marginale, ma del tutto incomprensibile ai fini del contesto nel quale viene inserita questa sorta di faida familiare. Ma è lui, il regista stesso, a regalarci l’interpretazione migliore, un uomo talmente viscido e mellifluo da sfociare quasi nell’orrorifico, una figura di delinquente talmente reale da apparire quasi tangibile. Sarà la sua morte, avvenuta durante la processione del venerdì santo (girata e fotografata in maniera straordinaria), a scatenare la terribile spirale delirante che colpirà la famiglia già di per sé disastrata. Ed è proprio nel susseguirsi e nel dipanarsi di questo secondo filone giallistico, che risiede il più grande difetto di questa pellicola. Con una soluzione “a portata di mano” sin dai primi minuti del film e con un susseguirsi di flashback fin troppo didascalici ed esplicativi, si arriva purtroppo ad uno scontato e prevedibile scioglimento dei dubbi circa l’assassino di Tonino e ad un finale alla “tarallucci e vino” con la famiglia riunita attorno alla tavola a brindare con un vino rosso come il sangue, come quello che è dovuto scorrere per far sì che si arrivasse alla pace. Ma tutto sommato la pellicola riesce comunque a rimanere apprezzabile, anche e non solo, grazie ai numerosi riferimenti e omaggi letterari che Rubini dissemina qua e là, da Dostojevski (i quattro fratelli implicati in un omicidio ricordano il suo romanzo I fratelli Karamazoff) fino ad arrivare a Verga (cosa è la terra che dà il titolo alla pellicola e che costituisce il terreno di scontro dei fratelli se non “la roba” alla quale Don Gesualdo era legato più di ogni altra cosa al mondo?), e ad una colonna sonora, seppur troppo “inflazionata”, firmata Pino Donaggio, che arriva a sottolineare la disperazione e l’estraniazione di un uomo che ha perso l’orientamento (lo capiamo sin dall’inizio, quando Luigi arriva a Mesagne e si ritrova in una campagna desolata senza sapere dove andare).  

Il finale ironico ma molto significativo di Luigi che in treno tenta di raccontare la sua esperienza alla sua compagna, salvo poi venire totalmente ricoperto dai rumori della locomotiva, ci fa prendere atto del fatto che nessuno può comprendere il complesso meccanismo del rapporto primordiale con la propria terra e del legame ancestrale con la propria famiglia.

 

VOTO: 7/7,5

 



CITAZIONE DEL GIORNO

 

"Eh, già, c’è un cavallo di meno". "No, ci sono due cavalli di troppo". (da "C’era una volta il West")

 


LOCANDINA

 


16 commenti su “La terra

  1. iosif, ci sono dei difetti che molto probabilmente possono far storcere il naso, io in certi frangenti infatti l’ho storto, però non so, sarà perchè parla della mia terra e di un argomento che mi coinvolge moltissimo, io sono riuscita a dimenticare subito quei difetti e a prendere solo quello che c’è di buono e ti assicuro che ce n’è.

    Alè, mitico!!!

    “Rimbambet ciu ve a deic a fratt!” XD

  2. in effetti rubini ha la tendenza allo stereotipo. anche in qyuello che, a mio parere, è il suo filom più bello: il viaggio della sposa.

    questo non l’ho visto.

    mario

  3. mario, a me invece manca Il viaggio della sposa.

    Luciano, potrebbe piacerti soprattutto per il discorso antrpologico che velatamente fa da sfondo alla vicenda tinta di giallo.

  4. lol, ma Salvo chi Pierrot? Se non avessi scritto il suo nome avrei intuito anche io che fosse lui, anche a costo di sbagliarmi ci avrei scommesso. ahah

  5. Si Drakoz è lui 😛 Comunque scusa se non ti ho fatto avere più notizie su quella cosa, ma in questi giorni come puoi anche vedere a malapena ho curato il mio blog, dato che ieri mattina ho dato un esame. Adesso mi rimetto in pari con tutte le cose lasciate in sospeso.

  6. Forse il difetto più grosso è che gioca su troppi registri (manca di unità stilistica). Ad esempio il personaggio splendidamente ributtante di Rubini è di un grottesco alla “Petri” che stona un po’ con il melò “post-neorealista” della storia di eredità, e con la sottotrama “giallina”. Invece trovo la cena finale, con gli sguardi dei fratelli inquieti e per nulla pacificati, tutt’altro che “a lieto fine”: una metafora (scusa la parola) di un’ Italia che non riesce più a comprendersi. Prova ne sia che, quando cerca di spiegare la vicenda sul treno, il rumore di fondo la cancella, come a significare un caos insanabile.

  7. Ciao ofvalley, sono d’accordo sull’interpretazione al finale che hai dato tu, per finale qui intendevo proprio la riappacificazione a taralucci e vino, quella che avviene a tavola per intenderci.

  8. C’è molto di buono in questo film, assolutamente. E poi c’è la nostra “terra”. Io lo apprezzai parecchio e lo considero forse il migliore dei film del Rubini regista.

    Post equilibrato. Io mi sarei fatto prendere la mano e forse sarei stato un pochino più magnanimo.

    Salutoni 🙂

  9. Bè Iggy, quella sequenza per me è davvero molto potente ed estremamente evocativi, come dici tu, un film da difendere assolutamente.

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