Un alibi perfetto

REGIA: Peter Hyamas

CAST: Michael Douglas, Ambert Tamblyn, Jesse Metcalfe, Orlando Jones, Joel Moore

ANNO: 2009

 

C.J. è un giovane giornalista che, mentre si occupa di servizi sugli animali o sui prodotti di marca, sogna di sfondare nella sezione investigativa del suo giornale. Quando però riceve la notizia che questa potrebbe essere chiusa per mancanza di fondi, si dedica anima e corpo al tentativo di smascheramento della corruzione del procuratore distrettuale Mark Hunter. Per riuscirci arriverà persino ad autoaccusarsi di un omicidio non commesso. Le cose però non andranno proprio come previsto e l’unica che potrebbe aiutarlo è la sua fidanzata, assistente del procuratore…

 

Un noir che in realtà ha molto poco del noir, a partire dalle atmosfere, fino ad arrivare all’autorialità e l’eleganza che spesso contrassegna il genere, senza tralasciare la presenza di guizzi narrativi, registici, visivi e recitativi. Tralasciando il fatto che si tratti di una riproposizione de “L’alibi era perfetto”, noir di Fritz Lang, uno dei maggiori esponenti del genere, “L’alibi perfetto” (titolo originale “Beyond a reasonable doubt”), non riesce a soddisfare lo spettatore, proprio perché privo di ritmo, sostanzialmente piatto per quasi tutto il tempo del suo svolgimento, incapace di coinvolgere lo spettatore a nessun tipo di livello, né emotivo, né visivo, né cerebrale. Non aiuta sicuramente la sceneggiatura, che pur svolgendosi su un soggetto che poteva destare particolare interesse, si incaglia rovinosamente in banalità narrative che nuociono all’economia complessiva della pellicola, a partire dalla stra-abusata e malgestita storia d’amore tra i due giovani protagonisti, fino a giungere alla caratterizzazione fin troppo retorica e stereotipata di ogni personaggio che si avvicenda sullo schermo: il procuratore distrettuale che cammina in bilico sulla sottilissima linea che separa il bene dal male, la giovane assistente grintosa e innamorata che mostra le unghie e i denti per raggiungere il suo obiettivo, il giovane giornalista con mire da premio Pulitzer (ma anche i personaggi minori sono accompagnati da clichè a volte persino fastidiosi, come gli informatici a cui si rivolge la ragazza per risolvere un mistero, caratterizzati come i più irritanti e insopportabili dei nerd). E se Michael Douglas, attore dallo charme e dalla comunicativa non indifferente, avrebbe potuto salvare in parte la baracca, ciò non avviene perché anch’egli si adagia stancamente sul suo personaggio, non trovandosi a suo agio nemmeno all’interno dell’aula di tribunale, luogo tipico di questo genere di pellicole e spazio entro il quale egli stesso si muove principalmente all’interno di questa in particolare. Lo stesso dicasi per i protagonisti più giovani, anche se la Tamblyn supera di una spanna il suo collega Metcalfe.

Gli unici momenti in cui la pellicola sembra impennare per staccarsi temporaneamente dalla linearità generale, sono le due sequenze che hanno come protagoniste delle automobili in corsa. La prima è quella in cui il collega e migliore amico del giornalista lascia di corsa l’aula del tribunale per andare a recuperare a casa sua il video girato dai due per dimostrare la colpevolezza del procuratore (ma com’è possibile che lascino un documento così importante a casa, invece di portarlo con sé? Ecco che la sceneggiatura si riempie anche di buchi o errori grossolani tanto per inanellare sequenze di corse e inseguimenti dal presunto tasso adrenalinico); e l’altra è quella in cui il “malefico” ispettore di polizia, complice del procuratore corrotto, tenta di uccidere l’assistente che sta ficcanasando, circondandola con infiniti e velocissimi giri della sua auto attorno a lei (la sequenza assume contorni quasi involontariamente comici, perché per fare fuori una persona quello adottato non è proprio uno dei metodi più indicati, a meno che la persona non si metta deliberatamente di fronte alle ruote dell’auto per farsi investire). Alla fine poi, il colpo di scena neanche così eclatante o impensabile, ci lascia con l’amaro in bocca perché se meglio gestito, così come tutta la pellicola in generale, avremmo potuto assistere ad un intrigante, interessante e stimolante noir sul senso della giustizia e anche dell’arrivismo e su cosa si sia disposti a fare per un bene o per l’altro. Invece, purtroppo, non ci resta altro che terminare la visione della pellicola pronunciando la stessa identica parola, rivolta dalla protagonista femminile a quello maschile, con cui essa stessa termina. Per non rovinare la sorpresa, ovviamente, non sveleremo quale, basti sapere che non è decisamente un complimento.

 

VOTO:

 


 

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