Non aprite quella porta (1978) VS Non aprite quella porta (2003)

L’horror dalle venature western

Un gruppo di amici decide di andare a visitare il cimitero di una cittadina del Texas, per controllare se la tomba del nonno di due di loro è stata deturpata dalle azioni di un pazzo che vi ha costruito delle sculture demoniache. Prima di poter ritornare a casa devono fermarsi per fare benzina e non trovandola, decidono di aspettare che il benzinaio si rifornisca perlustrando la zona. Quello che scopriranno sarà per loro fatale.
Un horror indipendente che riesce nell’intento di raggelare e immobilizzare lo spettatore facendolo rimanere a bocca aperta, pur senza troppi mezzi a disposizione. Un cast di attori semi-sconosciuti dà vita ad una storia che è impregnata di terrore e di orrore. Sia le vittime (soprattutto una, Sally, che verso il finale con le sue ininterrotta urla entra nelle nostre teste martellandole e coinvolgendole oltremodo), sia i carnefici (tra cui Leatherface divenuto col tempo uno dei personaggi orrorifici più famosi cinematograficamente parlando ma non solo), contribuiscono a  farci immedesimare, i primi, e a terrorizzarci oltremodo, i secondi. La spensieratezza e l’allegria di questo gruppo costituito da due ragazze e tre ragazzi (uno dei quali su una sedia a rotelle), fanno presagire sin dall’inizio il peggio, anche perché prima che il film cominci una didascalia ci mette al corrente del fatto che stiamo per assistere ad uno dei massacri più famosi della storia. La prima avvisaglia arriva con uno strambo e inquietante autostoppista, ma questo sarà solo il primo dei personaggi orribili che farà la comparsa sullo schermo, perché col proseguo della pellicola e con l’avvicinarsi dei ragazzi ad una casa dell’orrore, faremo la conoscenza di un uomo col volto ricoperto da una maschera di pelle umana che si diverte a macellare persone piuttosto che animali. La metafora del mattatoio ci introduce ovviamente alla vera e propria mattanza protagonista di questa pellicola. L’appartamento esteriormente lindo e sicuro, all’interno nasconde una realtà raccapricciante. Ad uno ad uno tutti i protagonisti della pellicola andranno incontro ad una morte atroce, solo uno di loro riuscirà a salvarsi un po’ rocambolescamente, un po’ grazie all’aiuto salvifico e miracoloso di un’altra persona (scelta sicuramente non casuale quella di affidare ad un uomo di colore il ruolo di "eroe").
Quello che più colpisce, oltre alle efferatezze compiute sui giovani protagonisti, è il rapporto che si instaura tra coloro che queste efferatezze le compiono: una famiglia più disfunzionale che mai a partire dal nonno che ha le sembianze di una mummia e che si diverte ad assistere inerme a tutto lo scempio che si compie davanti ai suoi occhi, passando per il padre carnivoro dalle "mani pulite", fino ad arrivare ai due figli (l’autostoppista e Leatherface) che paradossalmente vengono rimbrottati e maltrattati dai primi due. Le donne sono ovviamente bandite da questo quadretto familiare (seguendo quasi una logica western, considerando anche che la causa della tragedia è la mancanza di "petrolio") che si riunisce a tavola per cena e che segue i dettami delle famiglie da bene. La colonna sonora, prettamente incentrata sulle note della musica country che accompagna i giovani protagonisti, è anche costituita dai rumori incessanti della motosega di Leatherface, ormai famosissima, e dalle urla agghiaccianti dei ragazzi. La paura e il terrore arrivano in sordina e poi esplodono in un crescendo che sembra non avere fine, come dimostrano i ripetuti inseguimenti nei campi tra l’uomo armato di motosega e la ragazza indifesa (che riescono anche grazie all’espediente della camera a mano a trascinare lo spettatore in una spirale di angoscia non indifferente). Hooper riesce anche a creare un gioco perverso nel quale lo spettatore viene ingabbiato in una sorta di voyeurismo per cui aumentano i primissimi piani sui volti delle vittime. Attenzione però perché non sempre i diversi sono dei mostri, a volte si rivelano addirittura salvifici o persino innocui.
Il western scompare lasciando spazio allo slasher
L’unico dei tanti remake che non soccombe letteralmente sotto il peso del cult originale è forse il "Non aprite quella porta" targato Marcus Nispel del 2003, prodotto tra l’altro dallo stesso Tobe Hooper e dal regista "fracassone" Michael Bay. Certo le venature fascinosamente e ambiguamente western dell’originale scompaiono del tutto (per esempio all’interno della famiglia dei cannibali possiamo scorgere donne e bambini), lasciando spazio ad un dilagare di momenti altamente gore con sangue sparso ovunque, torture al limite del sopportabile (soprattutto per gli spettatori più impressionabili) e uccisioni a suon di motosega da tipica tradizione che si rispetti. Tutti elementi che sicuramente faranno leccare i baffi agli appassionati e che soprattutto sanciscono ampiamente la nuova tendenza orrorifica degli anni 2000, tutta tesa al mostrare piuttosto che lasciare intuire e suggerire così come avveniva in passato, e come avveniva appunto nel "Non aprite quella porta" originale. Trattasi di due differenti maniere di accostarsi ad  una narrazione horror, e spetta al gusto dello spettatore e alle sue preferenze decidere se apprezzare più o meno l’una o l’altra o se apprezzarle o disprezzarle entrambe.
Con le inevitabili e non necessariamente deprecabili differenze questo remake si fa apprezzare anche perché strizza l’occhio ironicamente al genere slasher, con tanto di protagonista bellissima vestita con maglietta bianca tirata fin sull’ombelico che andrà poi immancabilmente a bagnarsi divenendo quasi trasparente, e con tutti gli altri, ovviamente di aspetto da copertina, che cadranno come mosche a seconda di quanto sono antipatici o colpevoli di qualche malefatta (egoismi e utilizzo di marjuana in primis). Ovviamente, e questo forse è il punto più debole e meno ironico della pellicola, l’unico di loro che si salverà sarà quello esente da colpe e peccati, come se il mitico Leatherface fosse consapevole delle malefatte di ognuno.
E se nell’originale la causa della sosta era la mancanza di benzina per proseguire il viaggio in pulmino, qui ci troviamo di fronte all’uccisione improvvisa di un’autostoppista all’interno del furgoncino dei cinque ragazzi (personaggio che troviamo all’inizio in sostituzione dello strambo autostoppista caricato dai personaggi del film degli anni ’70). Ecco che allora Nispel si lascia andare a tecniche registiche fin troppo "videoclippare", data la sua carriera precedente, e si concede inquadrature attraverso il foro del cranio della ragazza e altri espedienti del genere (come l’incipit e il finale sui titoli di coda chiaramente e furbescamente ispirato allo stile di "The Blair Witch Project"). Alla semplicità e se vogliamo la voluta rozzezza, simbolo di indipendenza, della prima pellicola, fa riscontro allora una più studiata composizione dell’opera (anche se bisogna notare il fatto che i costumi e le acconciature non sono propriamente fedeli allo spirito degli anni ’70, ma piuttosto coincidenti con le mode degli ultimi anni).
Ma tutto sommato, anche grazie alla presenza del succitato Leatherface, ormai icona del cinema di genere, il film si fa seguire con molto piacere, anche perché girato abbastanza piacevolmente e fotografato in maniera cupa e "sporca" a rimarcare la desolazione circostante che trionfa all’interno delle abitazioni di questi inquietanti personaggi, di chiara ispirazione lynchiana, completamente immersi nel loro mondo e inconsapevoli dell’orrore che rappresentano. Uno di essi, addirittura, è lo sceriffo del paese, dunque colui che dovrebbe detenere l’ordine e la giustizia del posto, figuriamoci allora in quale luogo sono capitati gli sfortunati protagonisti.

Pubblicato su www.supergacinema.it

6 commenti su “Non aprite quella porta (1978) VS Non aprite quella porta (2003)

  1. nel film di hooper, il rovesciamento dell’inseguita che – invece di trovare riparo – fuggendo finisce proprio in bocca ai suoi aguzzini ha fatto scuola…
    un film eccezionale, malato come pochi.

  2. Nella storia dei remake horror direi che è uno dei meno peggio. Proprio l’altro giorno ho visto il remake di The fog di Carpenter…mamma mia!!!

  3. Beh, THE FOG con Tom "Smallville" Welling è davvero improponibile… Anche solo l’idea di sostituire i lebbrosi ai pirati è un suicidio creativo, non bastasse l’assoluta incapacità di cast e sceneggiatori… O.O

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