Come to Daddy: le colpe dei padri ricadono sempre sui figli?

Norval riceve una lettera dal padre che non vede da quando era piccolissimo e decide di andare a trovarlo. Quando arriva a destinazione, però, si troverà davanti un uomo insensibile, bifolco e inaspettatamente sadico e violento. Tutto sembra andare molto male, fino a quando Norval non scopre una botola segreta nell’appartamento, momento dal quale andrà ancora peggio.

Non fa niente di eccezionale Come to Daddy, raccontando delle cicatrici che spesso ci portiamo dietro a causa dell’assenza o dell’ingerente presenza (dipende dai casi) dei nostri genitori. Non racconta niente di nuovo, mostrando tra le righe dei dialoghi un passato fatto di depressione, alcolismo e istinti suicidi, proprio forse a causa di queste mancanze. Ma quello che riesce a fare Come to Daddy, straniandoci e inquietandoci all’inizio con la descrizione di questo padre “mostruoso” (il cui viscidume estremo è reso magicamente realistico da Stephen McHattie), per poi sorprenderci e confonderci da metà film in poi con lo sparpagliamento totale di tutte le carte in tavola, è diventare due film in uno, senza farci sentire il peso di questo cambio di prospettiva e, anzi, incollandoci con gli occhi allo schermo a causa di tutte le assurdità e di tutti i personaggi assurdi che si avvicendano nel racconto.

Del resto cosa possiamo aspettarci da un film che all’inizio dei titoli di testa ci propina due citazioni dedicate alla paternità così distanti tra loro come contenuto e autori delle stesse? Si passa insomma da Shakespeare e Beyoncé con una nonchalance che poi è la stessa che contrassegna i numerosi cambi di registro subiti dalla narrazione.

Come to Daddy, infatti, parte come thriller psicologico “da camera” con due protagonisti, padre e figlio, a contendersi la scena, per poi trasformarsi in un qualcosa che si potrebbe definire horror pulp, con alcune scene quasi insostenibili e con un’ironia slapstick mai fuori tempo e fuori luogo.

Questo lo si deve soprattutto alla perfetta aderenza di Elijah Wood al suo stralunato protagonista che si ritrova in una storia più grande di sé (i suoi enormi occhi a palla, da sempre tratto distintivo dell’attore, stavolta vengono addirittura posti al centro di un paio di dialoghi) e di un personaggio che si pone al centro di tutte le nostre attenzioni, costringendo il ragazzo apparentemente mite e indifeso, a perpetrare una violenza inaudita (che farà gola a tutti gli appassionati del genere ovviamente).

E questo personaggio ha il volto ormai iconico di Michael Smaley, spesso chiamato a interpretare personaggi ambigui, folli e grotteschi (basti ricordarlo in A Field In England, ma non solo), punta di diamante di un film che non aspira a molto altro se non a trascinarci a viva forza in una storia di degrado e di segreti nascosti, in grado di propagarsi nel tempo, fino a rovinare la vita di più di una persona.

È ovvio che si voglia anche, in itinere, parlare del rapporto padre-figlio, dell’eredità che spesso un padre lascia al proprio figlio, costretto a subire le conseguenze di scelte sbagliate e amorali, in grado di stravolgere intere esistenze, ignare e incolpevoli. Del resto Shakespeare diceva, appunto: “The sins of the father are to be laid upon the children”, ma al tempo stesso Beyoncé ci ha tenuto a specificare “There is no one else like my daddy”.

In mezzo a queste due concezioni si pone Come to Daddy, senza appesantirsi in sottotesti elaborati, ma andando dritto come un treno tra assurdità, lotte corpo a corpo indimenticabili e momenti surreali.

4 commenti su “Come to Daddy: le colpe dei padri ricadono sempre sui figli?

  1. Tra l’altro come produttore sta andando ad interessarsi sempre a progetti di nicchia ma comunque degni di nota. Ci piace Elijah Wood!

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