Les 7 jours du talion

REGIA: Daniel Grou
CAST: Rémy Girard, Claude Legault, Fanny Mallette
ANNO: 2010
 
Gli Hamel sono una coppia felice. Lui è un dottore che prova un amore sconfinato per la sua bambina di otto anni. Quando questa viene trovata stuprata e uccisa sulla via per la scuola, l’uomo, attanagliato dal dolore e dal senso di colpa, escogita un piano di vendetta esemplare: riesce a rapire l’uomo sospettato del delitto e lo conduce in un cottage disperso, dove per sette giorni lo sottopone a indicibili torture.
 
Presentato al Sundance Film Festival con molto successo tra i critici, questo “Les 7 jours du talion”, in inglese “7 days”, ha riscosso consensi per la qualità del racconto in grado non solo di intrattenere lo spettatore con ciò che accade, ma anche con quello che la storia riesce a comunicare e a trasmettere. Sceneggiato dallo stesso scrittore del romanzo omonimo da cui è tratto, Patrick Sénecal, è girato con garbo, spessore e decisione da Daniel Grou che si affida ad una serie di coinvolgenti inquadrature fisse e carrellate che mostrano la violenza, ma soprattutto le conseguenze che questa violenza provoca nell’anima di chi ne è vittima e colpevole. Funzionali, in questo senso, le sequenze in cui il protagonista (dapprima vittima della violenza dello stupratore pedofilo che ammazza la figlia, poi colpevole di vendetta nei suoi confronti) si reca fuori dal cottage in cui tiene prigioniero l’assassino, e rimane a contatto con la natura circostante, per staccarsi dallo squallore e dalla violenza che regnano all’interno del casolare, ma soprattutto di sé stesso. E’ anche nell’ambientazione, ben fotografata con toni cupi e freddi, che sta la forza di questo film, proprio perché riesce a farsi veicolo dei turbamenti interiori del protagonista e dello sconvolgimento mentale che lo ha catturato nel momento stesso in cui è stato costretto ad osservare il corpo della sua piccola bambina violato e abbandonato. Come fare, allora, a condannare una determinata condotta? Ma, del resto, dopo aver visto la qualità e la crudeltà delle torture inflitte al criminale, come fare a giustificarle?
Il revenge movie, per questo, riesce sempre ad avere il suo fascino, non solo per le atmosfere da cui di solito è attraversato, ma soprattutto per il dilemma che spesso propone allo spettatore, dilemma di non facile risoluzione. In questo caso specifico, poi, il quesito etico che pare volerci proporre il regista è davvero spinoso e mette in difficoltà anche gli spiriti più decisi e coriacei. La bravura del regista sta nel riuscire ad essere super partes per tutta la durata del film (se si eccettua il finale in cui in qualche modo si lancia in un evitabile moralismo condito tra l’altro da un’apparizione onirica forse un po’ esagerata), lasciando allo spettatore il difficile compito di giudicare gli avvenimenti raccontati con crudezza e freddezza nel film. Al riguardo risulta decisiva la figura del poliziotto incaricato di ritrovare i due uomini: quando un collega gli chiede perché si agita tanto per salvare la vita di un criminale di tal fatta, questi risponde che non è quella la vita che vuole salvare, riferendosi ovviamente al dottore. Ecco che allora il cliché narrativo che lo vede vedovo di una moglie uccisa durante una sparatoria, assume dei contorni ben precisi, proprio perché si fa carico del peso di rappresentare il suddetto dilemma etico che colpisce in primis un rappresentante delle forze dell’ordine. D’altro canto quando il dottore continua ad infliggere torture e umiliazioni alla sua vittima, l’uomo che ha stuprato e ucciso la sua bambina di otto anni, lo fa con uno sguardo spento, senza riuscire a provare soddisfazione, senza mai rivolgergli la parola, come se fosse un dovere da compiere, un dovere che pesa sulla sua mente e la sua anima. Mente e anima ben metaforizzati in un “incontro” poetico del protagonista con la carcassa di un cervo situata fuori dal cottage. Una carcassa che lui copre con della legna, mettendo così a tacere la sua coscienza, ma che poi continua a richiamare la sua attenzione, fino a quando non viene sepolta, gettata nel fiume. I momenti in cui, però, la partecipazione dello spettatore si fa più attiva sono quelli in cui lo stesso torturato giudica l’operato del suo torturatore. Ad un certo punto, dopo che il suo corpo è stato martoriato all’inverosimile, l’uomo dice al dottore che le violenze che sta subendo sono peggiori di quelle da lui inflitte. E’ proprio in quell’istante che lo spettatore non sa se dargli ragione o torto, rimanendo in bilico nel suo personale giudizio su quanto avviene sullo schermo. Accodarsi a Miguel de Cervantes che nel “Don Chisciotte” disse: “Vendette giuste non ne esistono”, o farsi convincere da Torquato Tasso che nella “Gerusalemme liberata” si lanciava in un “Dolce è l'ira in aspettar vendetta”?
Tanto dolce, però, non ci sembra il percorso del dottore che spacca le ginocchia dello stupratore, lo lega al collo lasciandolo appeso, lo frusta con delle pesanti catene, gli somministra del curaro paralizzandolo ma lasciandolo cosciente di tutto, gli inverte lo stomaco, lo evira e addirittura gli inserisce sottopelle una foto della figlia. Tornano in mente, allora, su tutte, le parole di Marco Aurelio: “Il miglior modo di vendicarsi d'una ingiuria è il non rassomigliare a chi l'ha fatta”.

Pubblicato su www.livecity.it e www.supergacinema.it

2 commenti su “Les 7 jours du talion

  1. Me l'ha fatto presente un mio amico che ne aveva letto non ricordo dove. Effettivamente dal sundance passa sempre roba interessante.

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